Anche oggi pubblico una parte dell’ultimo capitolo de “La Morte della Repubblica” il libro che scrissi in occasione delle elezioni europee del 2019.
La via politica per riconquistare l’indipendenza e la sovranità: la precondizione è l’euroexit.
L’uscita dell’Italia dall’euro è la precondizione indispensabile ed irrinunciabile per mettere fine alla situazione di apnea economica in cui versiamo, situazione che inevitabilmente ci sta portando verso ulteriori e definitive cessioni della nostra sovranità. D’altronde questo e solo questo era lo scopo dell’austerità e di quei vincoli di bilancio di cui vi ho spiegato il funzionamento e che per definizione costituivano meramente un mezzo per raggiungere uno scopo, non certo il fine. Nessuno ha mai tentato di segare l’albero su cui era seduta l’Unione europea, anzi è vero il contrario: si è fatto di tutto per mettere i popoli nella condizione di accettare volontariamente il progetto. Come nelle dichiarazioni confessorie che vi ho riportato nel primo capitolo, la crisi indotta dalle regole UE era lo strumento per vincere il senso di appartenenza nazionale dei popoli europei, così convincendoli che fosse nel loro pieno interesse cedere ogni residua sovranità. Anzi in verità il messaggio che è stato mandato, e che anche oggi arriva dai politici, di ogni colore, è che non vi è alcuna alternativa praticabile all’unione politica europea. Se ci pensate è davvero straordinario come siano riusciti a far credere a gran parte della popolazione che il rimedio sia laddove invece si trova la causa più profonda dei problemi che ci attanagliano. Un vero capolavoro.
Gli Stati Uniti d’Europa rappresentano il raggiungimento dell’obiettivo che gli ambienti deviati del potere economico, probabilmente, come ricordava Lelio Basso, provenienti dagli altri Stati Uniti, quelli d’America, si sono da tempo prefissati. Gli USE avranno certamente la funzione di scongiurare ogni possibile rigurgito democratico. Inoltre l’Europa unita potrebbe essere utilizzata, sempre come da intuizione di Lelio Basso, in chiave anti Russa e probabilmente, aggiungerei, anche anti Cinese. (Allora scrivevo di questa probabilità, oggi è una certezza assoluta visto il conflitto in corso in Ucraina che vede l’Ue in prima linea per servire gli interessi USA)
Solo attuando la precondizione dell’euroexit sarà possibile tornare alla piena attuazione del modello socio economico fatto proprio dalla Costituzione Repubblicana del 1948, che poi significa, in parole povere, restituire dignità e consapevolezza a tutto il popolo italiano, intervenendo per un’equa distribuzione delle risorse e controllando gli effetti distorsivi dell’iniziativa privata fuori da ogni controllo. L’euro è uno strumento di coercizione che da ormai quasi vent’anni condiziona le nostre esistenze ed il solo modo per ripartire è quello di liberarsene, senza alcuna previa trattativa, va semplicemente comunicata la decisione avvenuta e preteso che sia rispettata. Preso atto della scelta fatta dall’Italia, quale nazione finalmente davvero sovrana ed indipendente, i nostri patners europei, per dirla con un termine molto in voga oggi, si dovranno immediatamente sedere con noi ad un tavolo per dare corso a nuovi accordi monetari e commerciali. Tali accordi dovranno essere necessariamente paritari per consentire la reciproca e pacifica convivenza. Ammetto che in merito ai cambiamenti troppo repentini, anche lo stesso Keynes, suggeriva estrema prudenza:
“Al tempo stesso, però, coloro che cercano di liberare un paese dai suoi vincoli internazionali dovrebbero essere molto lenti e cauti. Non si tratta di strappare le radici, ma di abituare lentamente la pianta a crescere in un’altra direzione”
Tuttavia in questo caso la prudenza non può essere usata, esattamente come avviene quando un paese si trova occupato militarmente, la precondizione va attuata e basta. Sono convinto che Keynes, se vivesse ai giorni nostri, e avesse modo di studiare a fondo il sistema di governo dell’euro, la penserebbe esattamente come me. Parlo di precondizione assoluta perché finché rimarremo nell’euro sarà impossibile l’adozione di qualsivoglia provvedimento che possa invertire la rotta rispetto al pilota automatico che Bruxelles ha inserito. Le norme giuridiche hanno reso eterna l’austerità e non esistono scorciatoie per liberarsene (anche l’adozione di strumenti monetari complementari, seppur possibili in via astratta, provocherebbe la reazione di Bruxelles, come avvenuto con la vicenda odierna del superbonus, stoppato perché la circolazione dei crediti fiscali aveva creato una moneta), tantomeno è possibile o ipotizzabile aprire una trattativa con i nostri carcerieri, finché decidiamo di giocare secondo le loro regole. A dirla poi tutta, nella logica UE, un modo per mettere fine all’austerità in realtà c’è: consegnare definitivamente le chiavi della Repubblica, quello che ci viene chiesto è una resa incondizionata.
Il solo parlare di sforare i vincoli di bilancio ha portato immediatamente lo spread a salire in passato, tra l’altro con la conseguenza pratica che i maggiori interessi sul debito che a quel punto si pagano in forza dell’aumento dei tassi d’interesse, sono in grado di fagocitare quasi istantaneamente il margine ottenuto incrementando il deficit. Proprio mentre scrivo queste pagine il Governo in carica ha annunciato che, per i prossimi tre anni, non intende proseguire nella discesa del rapporto deficit/pil precedentemente concordata. Si intende mantenere all’incirca i livelli attuali d’indebitamento, quelli portati avanti, tanto per capirci, negli ultimi anni di Governo del centro sinistra. Si passerebbe dal 2,3% nel rapporto deficit/pil del 2018 al 2,4% del 2019, per poi scendere successivamente. (Anche oggi con il governo Meloni continuano le politiche di austerità)
Vale la pena sottolineare che, anche se tale scostamento dalle volontà europee non determinasse il pronosticato aumento dei tassi d’interesse, cosa che invece sta accadendo, posto che il paese paga ogni anno ben più del 3% del suo PIL per interessi passivi sul debito, la manovra sarebbe comunque inidonea ad immettere liquidità nell’economia e far ripartire il nostri paese. In parole povere anche così lo Stato proseguirà nei prossimi anni a tassare più di quanto spende, dunque salvo il recupero di risorse dalle esportazioni, il nostro destino è solo quello di impoverirci ancora di più. Peraltro ricordiamoci che quella della crescita dei tassi d’interesse è solo la prima avanguardia, infatti, in caso di mancato rispetto delle regole, il vero problema è che la Banca Centrale Europea può chiudere la liquidità a qualsivoglia paese dell’eurozona e alle sue banche. Se la liquidità viene chiusa si ha una tremenda e scontata conseguenza diretta: diventa impossibile, da parte dello Stato che non riesce a vendere i propri titoli, addirittura il pagamento di stipendi, pensioni e di quanto necessario per il funzionamento dei servizi pubblici essenziali. Il finanziamento da parte dei mercati infatti non è un dato scontato e se la banca centrale non acquista più i titoli rimasti invenduti, diventa addirittura impossibile andare avanti. La crisi dei titoli di Stato si rifletterebbe immediatamente anche sul circuito bancario, e anche qui, BCE, può chiudere immediatamente la liquidità di emergenza che eroga, secondo il suo arbitrio, al circuito creditizio privato. In tale caso le banche non hanno più liquidità ed i cittadini non avrebbero neppure più accesso ai propri risparmi, abbiamo già visto accadere una situazione simile in Grecia. L’Italia ha subito queste minacce, sia nei giorni precedenti all’avvento del Governo Monti, sia nel successivo momento dell’inserimento del pareggio in bilancio in Costituzione. Pertanto questo genere di ricatti restano sul piatto in ogni situazione in cui il Governo di turno osi parlare di misure potenzialmente espansive, anche solo per non veder evaporare il proprio consenso elettorale.
Dal punto di vista strettamente giuridico, come abbiamo visto, ogni legge che prevede nuove spese, deve indicare le relative coperture finanziarie, ciò peraltro era vero anche prima della nota riforma dell’art. 81 Cost. Per fare un esempio vi ricordo che quando Einaudi era Presidente della Repubblica, da buon liberista, rifiutò di firmare una legge priva delle necessarie coperture, ciò accadde per ben due volte.
Precisamente l’art. 81 Cost., ultimo comma, già nel 1948 disponeva:
“Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Tuttavia in precedenza tale dizione non era una follia come lo è oggi. Era infatti possibile ricorrere sia all’indebitamento, ovvero lo Stato poteva indicare che le coperture sarebbero state ottenute attraverso l’emissione di nuove obbligazioni, che allora potevano essere acquistate anche dalla nostra Banca Centrale, sia attraverso nuove emissioni monetarie. L’ultimo episodio in tale logica e condivisibile direzione, fu ad esempio quello delle famose cinquecento lire cartacee volute da Aldo Moro. In sostanza non era obbligatorio trovare le coperture attraverso nuove tasse o tagli alla spesa, dunque era possibile fare politiche espansive, ovvero immettere nel sistema economico più moneta di quanta se ne fosse drenata attraverso la tassazione. Oggi in particolare, in forza dei vincoli di bilancio imposti dai trattati europei e della normativa d’attuazione del pareggio in bilancio (legge n. 243/12 scritta e voluta da Giorgetti!), altra norma da abrogare subito, qualsivoglia politica espansiva è impossibile. Governo e Parlamento possono portare avanti unicamente una sorta di gioco delle tre carte. Vuoi ad esempio evitare l’aumento dell’IVA? Benissimo, prima devi verificare il costo economico di tale scelta e reperire le risorse attraverso una nuova tassa o tagli alla spesa. Lo stesso dicasi se si volesse davvero introdurre una “flat tax” o un reddito di cittadinanza, rispettivamente il calo di entrate o la maggior spesa, andrebbero compensate immediatamente con altre entrate o tagli. Tali vincoli valgono anche in caso di calamità naturali o eventi eccezionali ad impatto esclusivamente locale, ad esempio come le tragedie dei terremoti o quella del Ponte Morandi a Genova.
Rimanendo nell’euro dunque il paese non può migliorare in alcun modo la sua situazione ed anzi, l’inevitabile processo di contrazione della produzione industriale, dovuto alla riduzione della domanda interna, continuerà. Tutto questo renderà ogni giorno più complessa l’operazione di uscita dall’euro. Parallelamente continueremo ad assistere alla vendita delle nostre aziende, che passano in mano straniera e le imprese straniere ricordiamolo, laddove fanno utili, drenano letteralmente moneta dalla nostra economia. Risulta infatti intuitivo comprendere che non riutilizzando mai gli interi profitti conseguiti nel paese che hanno colonizzato, termine più certamente appropriato in questo caso, sottraggono ulteriori risorse finanziarie.
Mentre la moneta è e resta un’invenzione umana, uno strumento virtuale e sostituibile con qualsiasi altra convenzione, la produzione (non certo la sovrapproduzione inutile e ambientalmente dannosa dei modelli supercapitalistici) è invece un fatto assolutamente reale, da cui dipendono le nostre vite. Avere o meno una bistecca nel piatto non dipende da alchimie finanziarie, ma dal fatto che qualcuno abbia lavorato per portare quel cibo sulla nostra tavola. Parlo di un concetto di un’ovvietà disarmante, ma che in tempi di follia collettiva, è stato ampiamente dimenticato, anzi chi lo ricorda talvolta viene deriso o preso per matto da masse plagiate dalle menzogne che ogni giorno rimbombano sui media. Ogni secondo in più in cui un Governo ci trattiene in questa gabbia, oltre che commettere un grave fatto illecito, dal punto di vista penale è bene ricordare che non impedire un evento che si ha il dovere di impedire equivale a cagionarlo, comporta la riduzione della possibilità di liberarci in futuro e in ogni caso l’aumento della durata del periodo di sofferenza, assestamento e transizione che conseguirà all’exit.
Rimanendo nell’euro non è neppure possibile prendere tempo per preparare un’efficace strategia d’uscita, da qui il mio ragionamento che la calma che giustamente predicava lo stesso Keynes quando si pongono in essere mutamenti importanti, in questo caso non è attuabile. Nulla può essere fatto nel mentre per recuperare produzione o per tentare di ridurre la dipendenza economica dell’Italia da altri paesi. Sempre perché appunto, non è possibile fare gli interventi di spesa pubblica che sono necessari per attuare un piano industriale che renda più semplice l’exit. Come dimenticare poi che, dentro le regole UE, anche l’intervento di Stato nell’economia è bandito e dunque non è possibile portare avanti un progetto industriale di Stato. Solo attuata l’uscita si potrà iniziare a lavorare nella rotta della piena indipendenza, dunque dell’autarchia potenziale, in materia alimentare, energetica o sanitaria, giusto a voler citare quei settori da cui dipende la stessa nostra sopravvivenza. Parlo sempre di un’autarchia potenziale perché, se nessuno commerciasse con noi, ipotesi ovviamente limite, dovremmo comunque essere in grado di sostenerci da soli nei settori chiave citati. Sempre solo dopo essere usciti dall’euro si potrà ridurre, questo sì anche con gradualità, l’interdipendenza del paese verso le altre economie in tutti gli altri settori. Occorre tornare in primo luogo ad essere uno Stato normale e uno Stato normale è solo quello che emette la sua moneta, che non ha alcun vincolo precostituito di spesa, è uno Stato che fa i conti con il mondo reale e non con le virtuali convenzioni umane.
Pensare di fare grandi cambiamenti sociali ed economici non deve spaventarci, non credo che nessun uomo della nostra generazione possa essere così presuntuoso da credere che il nostro modello sia il punto d’arrivo dell’evoluzione umana. Anzi a dirla tutta credo che l’attuale modello sia poco più che un sistema preistorico: siamo davvero appena usciti dalle caverne. Pensate solo al “gold standard” di cui ci siamo liberati solo pochi anni fa, l’oro è inutile, non ha alcun valore reale, non si mangia, non ci cura, non ci scalda, non ci da energia. Però luccica ed è apparentemente raro, principalmente perché difficile da estrarre. Solo per queste banali ragioni gli abbiamo dato convenzionalmente un valore comunemente accettato, abbiamo così finito con il dare un valore alla nostra pazzia.
Ma al di là della filosofia spiccia torniamo al merito. Una volta presa la grande decisione di lasciare l’UE e l’euro gli scenari potenziali saranno sostanzialmente due ed in ogni caso si dovrà lavorare prevalentemente a vista, non possiamo sapere a priori come reagiranno le altre nazioni. L’abbandono della zona euro dell’Italia potrebbe causare il crollo della stessa: questo sarebbe certamente lo scenario migliore che possiamo immaginarci, poiché il nostro paese conserverebbe la possibilità di commerciare liberamente con l’estero per ciò di cui avremo bisogno nell’immediatezza. In uno scenario di disgregazione dell’euro zona la ripresa economica sarebbe sostanzialmente coincidente con il momento stesso dell’uscita dall’euro e non vi sarebbero scossoni di sorta e ciò addirittura anche senza un massiccio intervento dello Stato in economia. Resterebbe ferma, ma questo è evidente, la necessità di attuare politiche espansive, ovvero di immettere nell’economia più moneta di quanta ne togliamo con le tasse, ripianando le mancanze degli ultimi venticinque anni. Se uscissimo dall’euro mantenendo le logiche proprie dell’austerità la situazione per noi rimarrebbe completamente immutata. In questo scenario inoltre la stessa rotta verso una riduzione dell’interdipendenza economica, che significa vera sovranità e vera indipendenza, potrebbe essere graduale e senza strappi, proprio come nel pensiero keynesiano.
Ma c’è anche l’ipotesi peggiore, assolutamente possibile e che anzi io purtroppo ritengo assai più realistica, ovvero quella che l’UE non crolli affatto con l’uscita del nostro paese dall’euro. I maggiori commentatori hanno sempre detto il contrario, ne sono consapevole, ma la loro visione è a mio avviso assai miope e distante dalla realtà. Lo dico con sincero rammarico perché, come detto, la disgregazione della zona euro sarebbe per noi l’optimum. Dobbiamo ricordarci che la banca centrale europea è perfettamente in grado di gestire anche una simile tempesta e lo può fare senza alcuna reale difficoltà. La banca centrale crea moneta dal nulla, senza alcun limite quantitativo, non può finire i soldi e dunque può attuare tutti i provvedimenti che rendano possibile agli altri stati rimanere nell’euro senza scossoni: le basterà semplicemente inondarli della liquidità necessaria. Senza contare poi che tutti i governi europei sono in qualche misura, chi più e chi meno dunque, condizionati dal potere economico, che spesso ha addirittura determinato l’ascesa di un leader politico al posto di un altro e ha gestito con assoluta naturalezza l’alternanza tra maggioranza ed opposizione, controllando quasi sempre entrambe.
Pertanto non è assolutamente certo che nel momento di difficoltà determinanti governanti, così strettamente legati ad ambienti finanziari di stampo eversivo, decidano di tutelare gli interessi del proprio popolo anziché quelli dei mercati. D’altronde lo stesso Martin Schulz nella sua proposta di Stati Uniti d’Europa è stato chiaro nel dire che l’unione politica si farà con chi ci sta, chi non accetterà sarà invece automaticamente fuori dall’UE così sovvertendo, in nome della costituente europea, il principio dell’art. 48 TUE che oggi prevede la ratifica all’unanimità degli stati aderenti per gli accordi di modifica dei trattati.
Chiaramente se si verificasse l’ipotesi peggiore, il motto per l’euroexit dovrà appunto essere “sperare nel meglio, ma prepararsi al peggio”, l’Italia sarà costretta a sopravvivere con le proprie gambe dovendo rapidamente puntare, attraverso un massiccio piano industriale di ampie nazionalizzazioni, tra cui quella integrale del settore bancario, verso la citata autarchia economica. Tale piano industriale dovrebbe essere nel cassetto delle forze politiche già da tempo. Mentre l’exit è sul piano tecnico e giuridico, estremamente semplice da realizzare, non è altrettanto facile garantire al paese, ad esempio, il cibo o l’energia. Non avere un piano industriale pronto per un partito che aspiri a governare sarebbe assolutamente da folli irresponsabili. Peraltro anche se non si verificasse lo scenario peggiore, vuoi perché l’UE appunto collasserà, vuoi perché troveremo, questa è un’altra possibile ragione di speranza, altri partners commerciali attraverso nuovi accordi bilaterali, l’Italia dovrà comunque, per sicurezza nazionale, fare in modo di non dipendere mai più dalle importazioni in settori vitali per la sopravvivenza dello Stato stesso. Ai settori di interesse nazionale già citatati, che determinano la stessa sopravvivenza del paese, aggiungerei poi, sempre per interesse nazionale, la difesa. Dobbiamo poi essere anche in grado di costruirci in autonomia le nostre infrastrutture, ma questo è già oggi una realtà, per fortuna.
In questo scenario di ritorno all’autarchia, se l’Italia un domani importerà in misura contenuta beni voluttuari, non ci sarà alcun tipo problema. Come sappiamo in questi casi, se un paese subisse danni dall’invasione di un prodotto straniero potrebbe, qualora necessario, per tutelare interessi superiori (in particolare l’occupazione ovviamente), introdurre dazi per renderlo meno competitivo. Vogliamo ad esempio un particolare prodotto francese, ma la diffusione di questo, in modo capillare, farebbe chiudere le nostre aziende e danneggerebbe i nostri lavoratori? Bene, i cittadini saranno liberissimi di comprarlo, ma solo pagandolo di più di tutti i prodotti locali. Questo ne limiterà inevitabilmente la diffusione evitando danni importanti alle imprese autoctone, che sono il solo motore del nostro benessere reale. L’autarchia non è la chiusura di una porta blindata a tripla mandata dunque, ma è solo il modo più ovvio e naturale con cui si difende la sovranità di un popolo sul proprio territorio.
Ovviamente l’impostazione autarchica dovrà comunque parallelamente determinare anche la fine delle politiche volte alla massiccia esportazione dei nostri prodotti all’estero. Non possiamo pensare di diventare indipendenti e poi pretendere che i vicini ci lascino esportare tutto ciò che vogliamo senza reagire, questa linea di condotta fallimentare porta solo al conflitto. Nel nuovo assetto socio economico, assetto costituzionalmente orientato, i consumatori delle nostre imprese dovranno essere i cittadini italiani, grazie alla loro ritrovata capacità di spesa. Si dovrà pienamente realizzare l’equilibrio internazionale da sempre desiderato da Keynes e purtroppo, come abbiamo visto, respinto a Bretton Woods. I Paesi eccessivamente esportatori devono essere sanzionati e spinti a tornare a privilegiare la domanda interna, quelli che importano troppo devono essere resi più competitivi, affinché riducano la loro dipendenza dall’estero, e ciò senza abbattere i salari come avviene oggi, ma svalutando la moneta. Una volta compreso che, in un sistema simile, esportazioni ed importazioni non determinano più vantaggi di alcun genere, ad ogni Stato, non resterà altra via che l’espansione della domanda interna e la messa la bando del modello basato sulla forte competizione internazionale.
Chi continua a vedere male l’autarchia può forse essere convinto attraverso questo ulteriore ragionamento. Anche su questo tema il peso della propaganda è immenso visto che libera circolazione di merci e capitali e l’assenza di intervento dello Stato in economia sono i mantra che ci hanno messo in testa fin da bambini ed un bambino, ricordiamolo, crede anche in Babbo Natale se qualcuno lo induce a farlo. L’essere umano è facilmente influenzabile, tutti noi lo siamo, dunque nessuno si deve sopravvalutare, specie laddove non siete davvero padroni di un argomento dal punto di vista tecnico, le certezze sono sempre indotte dall’esterno.
Nell’attuale modello internazionale, come abbiamo visto, gli stati non collaborano in un’ottica solidale e di reciproco beneficio, ma basano le loro politiche sulla “forte competitività”, che altro non è che l’esatto contrario di quegli inderogabili doveri di solidarietà economica, politica e sociale che prevede l’art. 2 Cost.. Oggi l’interdipendenza viene così spinta, attraverso l’imposizione di politiche di austerità, che l’unico modo che ha una nazione di sopravvivere, diventa quello di forzare la vendita dei propri prodotti all’estero, condizione che richiede in primis un prezzo conveniente, estremamente conveniente, specialmente laddove anche il tuo vicino applica politiche di austerità a sua volta. Così si innesca una folle competizione verso il basso che garantisce solo il reciproco impoverimento fino al punto che uno dei contendenti, ormai schiacciato, finirà per aggredire con la forza, l’altro. La sola cosa che rende i prezzi più competitivi infatti è e resta purtroppo la contrazione del costo del lavoro. A stipendi più bassi corrisponde poi un crollo inevitabile della domanda interna e un calo della conseguente produzione, ma ovviamente tutto questo comporta la maggiore appetibilità dei tuoi prodotti sui mercati esteri e quindi un aumento esponenziale dell’interdipendenza economica complessiva tra gli stati.
Vi ricordate Mario Monti nella storica intervista alla CNN al tempo in cui era al Governo: “stiamo distruggendo la domanda interna per acquisire posizione di maggiore competitività”. Ebbene Monti raggiunse perfettamente il suo scopo infatti gli effetti delle sue politiche hanno consentito all’Italia di riportare in attivo la bilancia dei pagamenti, ovvero di tornare ad esportare più di quanto importava. Fermo il disprezzo che provo per chi ha tradito il proprio popolo, per assecondare il volere dei grandi gruppi economici di cui era rappresentante, non posso negare che dentro l’euro, con queste regole, le uniche politiche sensate siano paradossalmente proprio quelle attutate da Monti. Il problema che sono politiche che hanno una visione d’insieme di breve o brevissimo periodo, perché alla lunga le altre nazioni reagiscono, abbassano a loro volta i prezzi, e si arriva allo scontro. Se ciascuno producesse prevalentemente per i suoi cittadini non si verificherebbe invece alcun conflitto. Limitando gli scambi a ciò che davvero risulta indispensabile, e contemporaneamente aumentando il potere d’acquisto interno dei tuoi cittadini, la pace è assolutamente garantita. In sostanza la vera esigenza globale resterebbe solo quella di condividere le risorse naturali disponibili, che come noto, non sono distribuite equamente in tutto il pianeta e che non possono essere rivendicate da nessuno come diritto divino, pena ancora una volta un conflitto certo. Anche su questo Keynes dunque aveva ed ha perfettamente ragione.
La sola forma di integrazione astrattamente possibile è quella che si ottiene con il benessere, la condivisione e la solidarietà. L’uomo è nato per cooperare, lasciamo dunque alle bestie il compito di competere. Anzi talvolta gli animali si dimostrano più coesi e solidali di quanto non lo sia l’essere umano con i suoi simili. Dunque se anche l’integrazione dovesse essere considerata un valore a prescindere, essa si potrebbe attuare solo con politiche espansive di potenziamento della domanda interna e non di competizione al ribasso sull’export. Peraltro, neppure in un mondo in cui esistesse un solo governo centrale, si attuerebbero politiche industriali come quelle che vediamo oggi. La produzione, anche meramente per un fatto logistico, sarebbe sempre posta vicino, o comunque il più vicino possibile, al luogo di consumo, poiché i trasferimenti di merci costituirebbero semplicemente uno spreco inutile di risorse reali. Sarebbero trasportate solo alcune materie prime, che magari non sono distribuite equamente su tutto il pianeta (anche se pure questo aspetto ormai sta mutando in forza delle nuove tecnologie, sia estrattive che produttive). Così anche in un mondo accentrato i cittadini non migrerebbero da regione a regione in cerca di un lavoro, ma resterebbero nelle proprie zone di origine, azione che porterebbe ulteriore benessere e felicità, dato che non obbliga a spezzare i legami che si creano nel tempo nei luoghi in cui si nasce e si cresce. L’idea di diventare cittadini europei è un concetto stupido anche da questo punto di vista: le radici non sono un fatto di disprezzo verso ciò che consideriamo diverso, ma sono il sacrosanto diritto di ciascuno di mantenere i propri legami affettivi e culturali.
L’interdipendenza economica tra regione e regione, anche dinnanzi ad un governo unico mondiale, sarebbe pertanto assai limitata e assolutamente residuale, ci si limiterebbe a condividere le risorse più preziose secondo un modello improntato alla solidarietà nei rapporti, modello che potrebbe benissimo essere attuato anche oggi a livello mondiale ed in presenza di stati sovrani, basterebbe rivedere l’ordine economico mondiale. L’Italia dunque non può rinunciare alla precondizione necessaria a mettere fine alla crisi, appunto l’euroexit, per paura delle scelte autarchiche che in conseguenza dovrà prendere. La riconversione del proprio tessuto produttivo in funzione delle esigenze del territorio che si deve andare a soddisfare è solo un’ovvia e scontata caratteristica di ogni civilizzazione e sarebbe appunto esistente anche se vi fosse un, comunque non desiderabile, governo mondiale.
Marco Mori, candidato per la lista “Libertà” nella circoscrizione nord occidentale alle elezioni Europee 2024.