Dopo un primo articolo sui possibili ed ormai ampiamente noti metodi di difesa in giudizio contro lo studio di settore che, come avrete, letto sono molteplici, voglio provare a ragionare a monte del problema.
Lo Stato pretende che alcune categorie di contribuenti forniscano al fisco ogni anno, oltre alla mera dichiarazione dei redditi, tutta una serie di dati ulteriori relativi alle proprie attività idonei a stimarne, in base ad un metodo puramente statistico-matematico, le entrate. Tali dati nella sostanza servono per verificare in via presuntiva se un contribuente sia o meno un evasore fiscale. Lo Stato chiede dunque al contribuente di fornire elementi idonei ad autodenunciarsi, elementi che saranno usati contro di lui per un successivo accertamento fiscale.
Tale normativa crea, come minimo, motivato sconcerto in chi crede in uno Stato di diritto ma ciò non solo per le ragioni già illustrate nel precedente articolo sugli studi, ragioni che hanno portato ad un’interpretazione costituzionalmente orientata del valore dei medesimi e di cui si e’ già detto abbondantemente in quanto accolte dalla Cassazione.
Ma come detto in questa sede si vuole andare a monte del problema. Ovvero domandiamoci se un contribuente possa o meno rifiutarsi di redigere ed inoltrare lo studio di settore.
La mia opinione, benché sul punto non ci sia attualmente casistica in Italia, e’ certamente positiva. Uno Stato non può obbligare nessun cittadino ad autoaccusarsi di un fatto illecito che comporta, ed e’ questo il punto fondamentale, addirittura il rischio di sanzioni penali e ciò in ossequio al supremo principio del diritto di difesa di cui all’art. 24 cost.
In materia si e’ tornati davvero al medioevo del diritto avviando un sistema, vergognoso, di polizia tributaria in nome di una falsa emergenza sociale. In realtà sappiamo (purtroppo non e’ concetto ancora chiaro a tutti) che non e’ l’evasione ad essere la causa della crisi economica che invece dipende dalla finanza speculativa e dalle demenziali (o criminali?) politiche monetarie ed economiche dell’UE.
Tornando al tema non vi e’ alcun dubbio che in ambito penale, proprio in forza dell’art. 24 cost., e’ unanimemente riconosciuto il diritto dell’imputato a difendersi dalle accuse a lui mosse non solo tacendo i fatti che lo possono danneggiare (cd. “diritto al silenzio”) ma anche “mentendo”, ossia effettuando una ricostruzione del dato fattuale su cui deve celebrarsi il processo, non vera.
Ma in materia tributaria la risposta all’interrogativo può essere diversa? Certamente no. La richiesta dello studio di settore lede il diritto di difesa dei cittadini obbligandoli ad autodenunciarsi. Il dato letterale dell’art. 24 cost. non fa alcuna distinzione alla sede in cui si esercita il diritto di difesa: “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
La dizione letterale dell’articolo 24 Cost. non consente pertanto di prentendere dal contribuente una cooperazione attiva per ottenere la sua sanzione con conseguente rischio di determinarne anche la responsabilità penale, benché nel nostro ordinamento ciò avviene solo oltre una soglia massima di evaso.
In ambito Tributario l’art. 6 Legge n. 146/1998 dispone: “La determinazione di maggiori ricavi, compensi e corrispettivi, conseguente esclusivamente all’applicazione degli accertamenti di cui al comma 1 (appunto in materia di accertamenti presuntivi come lo studio di settore), non rileva ai fini dell’obbligo della trasmissione della notizia di reato ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale”.
Dunque non e’ reato per l’Ufficio omettere d’informare la Procura del discostamento rilevato per mezzo dello studio di settore. Tuttavia questo non ridimensiona il ragionamento suesposto visto che e’ palese che l’assenza di obbligo non implica affatto un divieto di informativa in capo all’Agenzia delle Entrate laddove accerti discostamenti superiori alla soglia di reato in materia fiscale. Il contribuente e’ oggettivamente obbligato ad esporsi al rischio di subire conseguenze, anche penali, dalla sua collaborazione alle impertinenti richieste del fisco.
Solo depenalizzando i reati fiscali sarebbe possibile giungere ad una conclusione forse difforme e ciò in quanto si e’ perfettamente consapevoli dell’esistenza nell’ordinamento di sentenze che hanno limitato la portata precettiva dell’articolo 24 Cost. oltre all’ambito del diritto penale, sentenze che per inciso non condivido in virtù del dato oggettivamente omnicomprensivo dell’art. 24 Cost.
La ratio del ragionamento esposto non e’ di esclusiva “invenzione” del sottoscritto ma anzi e’ anche il frutto di un importantissimo precedente giurisprudenziale della CEDU (La corte europea dei diritti dell’uomo). Precisamente con sentenza del 5 aprile 2012, la quinta sezione, ha avuto modo di sancire il pieno diritto per un contribuente a non collaborare con gli uffici finanziari allorquando da tale collaborazione possa scaturire l’apertura di un’indagine penale. Posto che tale possibilità e’ insita in ogni accertamento fiscale, ad avviso dello scrivente e’ lecito opporre il silenzio a qualsivoglia richiesta di autodenuncia fiscale ed i conseguenti accertamenti basati sull’utilizzo a sfavore del contribuente di tale silenzio sono da considerarsi radicalmente viziati per contrasto insanabile con l’art. 24 cost.
Con recente missiva ho formulato rituale istanza d’interpello all’Agenzia delle Entrate al fine di richiedere se costituisca o meno comportamento illecito pretendere la collaborazione da parte del contribuente ai fini di emettere accertamenti fiscali. Alla risposta, prevedibilmente contraria alle mie tesi, da parte dell’Ufficio seguirà immediata azione legale nella quale sarà sollevata la questione. Vi terrò aggiornati sugli sviluppi.