Come vi ho detto più volte l’aspetto principale di una manovra di bilancio sono i saldi complessivi. Se la manovra è in disavanzo, ovvero lo Stato immette più soldi nell’economia attraverso la spesa pubblica di quanti ne drena con le tasse, la manovra può dirsi espansiva. Se invece si fa avanzo, ovvero si tassa più di quanto si spende, la manovra fa austerità. La legge di bilancio 2019 attua proprio questa seconda scelta, ovvero aumenta addirittura l’avanzo primario rispetto ai precedenti governi, Monti compreso.
Specificatamente il deficit di bilancio è fissato, dopo l’imposizione dell’UE, al 2,04% del PIL. Tuttavia posto che il costo degli interessi passivi sul debito sarà nell’anno pari al 3,6%, sempre del PIL, l’avanzo complessivo del 2019 raggiungerà l’1,6%. Ovvero oltre 25 miliardi di euro verranno tolti dalle tasche degli italiani. L’avanzo salirà poi, sempre secondo le previsioni fatte dal governo addirittura al 2% nel 2020, ovvero raggiungendo la cifra, davvero pazzesca, di 35 miliardi. La realtà sarà tuttavia peggiore delle previsioni e ciò, sia perché sconteremo un costo sugli interessi passivi ragionevolmente maggiore di quanto previsto in forza dell’aumento dello spread che abbiamo patito, sia perché parimenti, anche la crescita preventivata non ci sarà affatto. Per il 2019 è prevedibile addirittura un PIL in territorio negativo, come dimostrano i dati dell’ultimo trimestre.
Qualcuno a questo punto obietterà che tuttavia la manovra pur essendo in avanzo diventa espansiva per i singoli provvedimenti presi. L’obiezione è già errata sotto il profilo terminologico. La manovra resta di austerità perché in avanzo, dunque casomai si può al massimo parlare di una migliore redistribuzione delle risorse che, sulla base delle dichiarate intenzioni del governo, dovrebbero generare un maggior effetto moltiplicatore.
E qui veniamo al tema dell’articolo ovvero flat tax e reddito di cittadinanza, così come messi a punto nella logica dell’attuale contesto normativo, ovvero quello della parodia dell’incubo del contabile di Keynesiana memoria che l’UE ci impone. Queste sono le due misure, insieme all’aumento delle pensioni minime, che dovrebbero portare ad una crescita del PIL superiore alle attese. Ma così non potrà essere e vi spiego tecnicamente perché partendo dal reddito di cittadinanza.
Il PIL misura il valore di mercato aggregato di tutte le merci ed i servizi prodotti all’interno del confine di una nazione. La nozione di prodotto è riferita ai beni e servizi che hanno una valorizzazione in un processo di scambio. Da tale definizione dunque sono escluse le prestazioni assistenziali, poiché per definizione non sono un prodotto od un servizio. Siamo nel campo del virtuale ma l’UE accetta solo tale conteggio del PIL ed è solo sulla base di tale conteggio che si verifica il rispetto dei vincoli di bilancio. Dunque sia il reddito di cittadinanza che l’aumento delle pensioni minime non comportano alcun incremento del PIL nel passaggio di denaro tra Stato e cittadini. Il PIL sarà influenzato dai successivi consumi ma complessivamente, per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, il moltiplicatore sarà infinitamente più basso rispetto ad una riforma in cui si fosse prevista l’assunzione nel settore pubblico della forza lavoro disponibile. Le assunzioni al momento sono invece state bloccate per tutto il 2019.
Tra l’altro tale approccio sarebbe stato l’unico costituzionalmente orientato sulla base degli artt. 1 e 38 Cost. Ovvero se la Repubblica è fondata sul lavoro l’assistenza è dovuta unicamente a chi si trova in stato di disoccupazione involontaria, tutti gli altri dovrebbero lavorare e con un settore pubblico fortemente sotto organico le nuove assunzioni sarebbero state un atto dovuto. Ci mancano milioni di dipendenti pubblici in tutti i settori, dal personale qualificato come medici, insegnati, magistrati, a quello meno qualificato ma comunque indispensabile per fare la moltitudine di cose di cui le nostre città e i nostri territori hanno drammatico bisogno. Nel mio nuovo libro sono andato addirittura oltre proponendo l’estinzione della disoccupazione attraverso l’assunzione di tutti i disoccupati abili al lavoro e disponibili a svolgerlo. Limitando così l’assistenzialismo ai casi previsti nella Costituzione e dunque disponendo una tutela illimitata solo per disoccupati involontari ed invalidi, cosa che non è mai stata fatta nella storia della Repubblica. Ogni forma di assistenza alla disoccupazione è sempre stata limitata nel tempo e aperta solo ad alcune tipologie di lavoratori, con esclusione ad esempio degli autonomi.
Il reddito di cittadinanza non porterà alcun beneficio al PIL, l’effetto moltiplicatore della spesa pubblica così impiegata potrebbe addirittura non essere molto maggiore di un euro per ogni euro versato in reddito. Al contrario l’assunzione dei disoccupati involontari avrebbe un moltiplicatore decisamente maggiore, la spesa in stipendi è PIL già al primo passaggio, quello tra Stato e cittadini. Siccome i cittadini spendono i soldi che percepiscono il moltiplicatore per ogni euro speso in stipendi sarà molto maggiore di quello del reddito di cittadinanza con punte che possono portare ad una stima realistica, specialmente per gli stipendi più bassi, ad almeno due euro di maggior PIL per ogni euro di stipendio versati. La conseguenza? Se assumessimo sei milioni di disoccupati ad uno stipendio medio di 1200,00 euro al mese avremmo un costo annuo di poco inferiore ai 90 miliardi di euro per le casse dello Stato. Attuando ovviamente questa spesa a deficit, essa corrisponde a poco più del 5% del PIL. L’aumento del PIL in virtù di tale spesa sarebbe decisamente maggiore al 5%, ma sarebbe prossimo o superiore al 10%. Ma anche non aderendo alla mia previsione, volendo essere pessimisti come il FMI che parla di un moltiplicatore ad 1,5 avremmo avuto comunque una crescita del PIL del 7,5%. Questo avrebbe comportato la riduzione del rapporto debito/pil che invece con la manovra del governo aumenterà. Se si voleva andare a dire qualcosa di sensato a Bruxelles dunque si doveva spiegare che se l’obiettivo, come richiede la Commissione sulla base dei trattati, è ridurre il rapporto tra debito e pil al 60%, il solo modo di raggiungerlo era fare deficit in misura ben superiore al 3% arrivando intorno ai livelli del 10%, già visti anche in tempi recenti in Europa (la GB ad esempio fece deficit oltre il 9% per rispondere alla crisi del 2007).
Doveroso invece l’aumento delle pensioni minime (anzi l’aumento è troppo basso) ai sensi dell’art. 38 Cost. L’intervento è tuttavia macroeconomicamente irrilevante perché i soldi utilizzati per aumentarle, circa 2,5 miliardi saranno presi dalle altre pensioni tornando al blocco parziale delle indicizzazioni che aumenterà progressivamente all’aumentare del reddito. L’effetto sul PIL sarà irrisorio e visto che il governo ha scelto di restare nell’incubo del contabile che ci impone l’UE tale misura non porterà benefici a livello macroeconomico limitandosi ad una redistribuzione. Ovviamente se si voleva avere un impatto positivo sul PIL le minime andavano aumentate, anzi aumentate di più, ma contemporaneamente non doveva essere ridotto il costo complessivo delle pensioni. In sostanza l’aumento doveva avvenire parimenti in deficit e sommarsi al deficit necessario a riassorbire la disoccupazione. In sostanza ciò che dovrebbe fare un governo serio e che vuole il bene dei cittadini è eliminare la disoccupazione ed assistere anziani ed invalidi. La spesa pubblica maggiore poi, come sempre, diventerà ricchezza del settore privato con ripartenza di tutta l’economia.
Veniamo poi alla flat tax, al contrario del reddito di cittadinanza, il moltiplicatore della flat sarà certamente inferiore ad 1. Ovvero per ogni euro in più che la flat lascerà nelle tasche dei cittadini il PIL salirà in misura inferiore ad 1 euro. Fermo restando che la flat, al di là del vantaggio che da non essere soggetti allo studio di settore e alla fattura elettronica (sarà possibile fare più nero per la sensazione di subire meno controlli) e al vantaggio che da far pagare i propri servizi senza iva e dunque ad un costo inferiore, non è conveniente per tutti. Infatti con la flat sarà possibile scaricare solo una entrale fissa dei costi della propria attività, ovvero il 22 anche laddove i costi reali siano stati maggiori. In questo modo la flat può anche sconvenire a chi scaricava di più. Ma analizziamo gli effetti macroeconomici di questa imposta su chi pagherà meno tasse in forza della stessa. Mi basta un esempio per farvi capire perché il moltiplicatore sarà di scarso impatto sul PIL e perché la flat peggiorerà necessariamente i conti pubblici (e questo anche in virtù dell’ingente perdita in termini di iva che non sarà versata dai contribuenti che aderiscono a tale regime ma non finirà nei consumi in misura pari al risparmio conseguito).
Se domani mattina, in un contesto di crisi, come quello attuale, io mi tengo in tasca in un anno 2000 euro di tasse che altrimenti avrei corrisposto all’erario, non spenderò mai l’intera somma. Sarò naturalmente portato a tenere un cuscinetto per far fronte all’emergenza. La riduzione fiscale ha sempre un moltiplicatore inferiore all’aumento della spesa pubblica, anche in tempi di espansione. Ma ovviamente più c’è crisi, meno efficace è la riduzione della pressione fiscale. Il moltiplicatore che mi permetto di prevedere per la flat, e non serve un genio per fare questa previsione, è dunque inferiore ad uno. Ovvero per ogni euro di tasse che resterà nelle tasche dei contribuenti il PIL salirà meno di un euro, peggiorando il rapporto debito PIL. Solo in un momento di espansione e fiducia anche una riduzione delle tasse determinerebbe immediatamente un incremento del PIL in misura maggiore del costo della misura stessa. Oggi ciò non accadrà. Condivido che sarebbe stato giusto abbassare le tasse ma la priorità assoluta era alzare la spesa strutturale ad alto moltiplicatore (stipendi) e poi valutare (in base all’andamento dell’inflazione per le misure espansive decise) una riduzione della pressione fiscale in maniera graduale e progressiva a partire dalle imposte indirette e non già da quelle dirette e progressive. Al contrario il governo ha creato una misura priva di progressività, che determinerà un calo del gettito e non avrà effetti benefici sul PIL. La flat aumenterà anche il nero, sia da parte di chi vorrà rientrare in questo regime, sia in merito ai costi legati all’attività. Infatti avendo la percentuale fissa del 22% e non avendo iva a debito da compensare con l’iva pagata per acquisti ci sarà anche interesse a non ricevere fattura per le spese di esercizio. Certo il nero nelle attuali regole economiche è un vantaggio per l’economia (ve lo spiegavo per esempio in questo articolo, clicca qui), ma questo non compenserà la natura complessivamente recessiva della flat.
Insomma la manovra è un disastro e causerà un disastro.
Avv. Marco Mori, CasaPound Italia – autore de “La morte della Repubblica. Gli Stati Uniti d’Europa”, disponibile on line e nei punti vendita Mondadori.