di Luciano Barra Caracciolo – Presidente della Sesta Sezione del Consiglio di Stato –
Ho l’immenso piacere di pubblicare uno studio di Luciano Barra Caracciolo, illustre Magistrato e colonna portante di Riscossa Italiana. Tale opera è una disamina attenta delle migliori proposte emendative che, qualora inserite nella Costituzione, rafforzerebbero il suo impianto rendendola sostanzialmente immune da nuovi attacchi alla democrazia costituzionale e quindi in definitiva alla personalità dello Stato. Leggete e commentate questo splendido lavoro presente ovviamente anche sul sito www.riscossaitaliana.it.
Marco Mori
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1– LA STRUTTURA NORMATIVA DELLA COSTITUZIONE DEMOCRATICA. LA TIPOLOGIA DEI SUOI CONTENUTI.
Le Costituzioni democratiche “nazionali” valgono, oggi più che mai, come garanzia indispensabile delle libertà degli individui e dei popoli e assumono il ruolo di estremo baluardo della “possibile” e “residua” democrazia.
Su ciò appare opportuno fare una sintesi generale, la più nitida possibile, che colleghi questo aspetto al “modo” in cui sono strutturate le stesse Costituzioni.
Cominciamo col dire che le norme costituzionali, in relazione al loro possibile contenuto “tipico”, possono essere classificate in tre tipologie:
1) i diritti e i principi fondamentali in senso proprio, quelli che fissano il fondamento e la titolarità della sovranità (cioè tale titolarità ha un fondamento democratico, in quanto risiede nel popolo inteso come comunità complessiva dei cittadini), e quelli che stabiliscono altresìi “fini” irrinunciabili che persegue tale comunità. Questi fini, che riflettono un sistema di valori socio-economici, sono perseguiti attraverso le “istituzioni” costituzionali, (art.1 Cost. “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”), le quali non possono far altro che ricercarne la effettiva realizzazione, nel tempo: sono cioè ad obbligatorio e costante perseguimento;
2) i principi “programmatici” cioè quelli che predeterminano le linee di azione che le stesse istituzioni devono perseguire per rendere effettivo il costante perseguimento dei “fini” fondamentali. Sono perciò dei “corollari” che connotano, in termini di azione di governo-legislazione, un percorso in assenza del quale i principi-fini rimarrebbero in costante pericolo di rimanere irrealizzati (tali sono, ad es; gli artt 36-38 Cost. e più in generale le norme della “Costituzione economica” di cui si è sopra parlato in termini di “sterilizzazione” occulta, e della cui importanza, negletta, in termini di complessiva caratterizzazione del modello sociale costituzionale, si è detto fin dal primo capitolo della Parte I);
3) le norme di organizzazione, quelle che determinano in concreto come le istituzioni debbano essere strutturate in modo che tale stessa struttura garantisca il perseguimento dei fini e la effettività delle linee di azione programmatica. Tali norme sono dunque di tipo strumentale, dato che l’organizzazione è legittima solo in quanto coerentemente funzionale all’effettiva azione realizzativa dei valori inderogabili.
A questo punto occorre verificare se e in che misura queste tre categorie di norme siano modificabili. Che è un problema generale distinto da quello della “rigidità” della Costituzione, che significa principalmente, modificabilità “a certe condizioni”, in particolare mediante deliberazioni della Camere con un procedimento più complesso di quello dettato per l’adozione delle leggi ordinarie ed attualmente disciplinato dall’art.138 Cost.
E per fare questa verifica partiamo da un’analisi strutturale, prima, e funzionale, poi, della nostra stessa Costituzione.1
La Costituzione, secondo l’art.139, che definisce i limiti della revisione, non può essere mutata quanto alla “forma repubblicana”. Tale locuzione è normalmente intesa, in una lettura sistematica, fino ad includervi i principi fondamentali (artt.1-12 Cost.), cioè i principi fondanti da cui quella “forma” non è, storicamente e concettualmente, scindibile.
Nella forma repubblicana entrano altre parti della Costituzione ma in riferimento al susseguente, (nella partizione della Carta), ”Ordinamento” della stessa forma repubblicana, inteso cioè come insieme di moduli organizzativi di funzioni e organi di livello costituzionale, che “devono” esserci, ma che, in certe loro “modalità”, non sono “fondativi” della forma repubblicana in modo assoluto, come accade per i principi fondamentali (che essendo fondanti non risultano “comprimibili” nella loro integrale espressione contenutistica).
Si deve cioè ritenere che la “revisionabilità” non alteri la “forma repubblicana” quando coinvolga una previsione costituzionale “ordinamentale”, purché quest’ultima sia considerata nella parte del suo contenuto che non riflette la segnalata relazione di stretta “funzionalità” alla realizzazione dei principi fondamentali (tutti): dovrebbe, cioè, formularsi una valutazione di ragionevolezza e di adeguatezza strumentale, in modo che eventuali modifiche ordinamentali non possano mai, direttamente o indirettamente, comprimere i principi fondamentali e l’attivazione, “servente” ad essi, di determinati compiti, funzioni e organi.
Tale “revisionabilità attenuata” – che è quella oggetto dei numerosi disegni di revisione susseguitisi negli ultimi decenni, senza che sia peraltro emersa una seria ponderazione dei limiti qui evidenziati – riguarda, con le diverse gradazioni che verranno specificate:
– la Parte I, “diritti e doveri dei cittadini”:
Titolo I “rapporti civili” artt.13-28;
Titolo II “rapporti etico-sociali”, artt.29-34;
Titolo III “rapporti economici”, artt.35-47; Titolo IV, “rapporti politici”, artt.48-54;
la Parte II “ordinamento della Repubblica”:
Titolo I, “il Parlamento”artt.55-82;
Titolo II, “il Presidente della Repubblica, artt.83-91;
Titolo III, “il Governo”, artt.92-100;
Titolo IV “la Magistratura”, artt.101-113;
Titolo V, “le Regioni, le Province, i Comuni”, artt.114-133;
Titolo VI, “Garanzie Costituzionali”, artt.134-139.
N.B. Va anche considerato che, a rigore, gli artt.138 e 139, quelli che disciplinano proprio la revisione costituzionale, rientrano tra le previsioni “chiave” che garantiscono (appunto come una serratura) la immutabilità della forma repubblicana e quindi non sarebbero “logicamente” assoggettabili a revisione, integrando una essenziale precondizione di “inattaccabilità” dei principi “fondamentali” degli artt. 1-12, come fondanti la stessa “forma repubblicana”.
2- I LIMITI GENERALI ALLA REVISIONE COSTITUZIONALE
Fatta questa precisazione di principio, si può ipotizzare che, a parte i principi fondamentali, la Parte I e la Parte II della Costituzione, sono suscettibili di un certo grado di revisione “funzionale”, seguendo un prudente principio-guida: la forma repubblicana corredata dei principi fondamentali non è mutabile, ma esistono varie possibilità di organizzarne l’ordinamento legislativo e governativo, il potere giudiziario, le autonomie territoriali, e le garanzie costituzionali, purché non siano, appunto, posti in pericolo i principi fondamentali intesi nella loro piena portata.
Tuttavia, alla luce dell’esposizione svolta fino ad ora, quantomeno ogni previsione della Parte I della Costituzione, cioè l’intera gamma dei diritti e doveri dei cittadini, assume il naturale ruolo di enunciazione dei principi programmatici che costituiscono appunto il campo di una “specificazione necessitata” (e come tale caratterizzante), attuativadei diritti fondamentali stessi.
Seguendo in chiave storica la nascita e la strutturazione delle Costituzioni moderne, emerge che, in ragione della loro origine “negoziata” e della connessa funzione evolutiva, tali principi programmatici, quali appunto quelli della Parte I della Costituzione italiana, svolgono il ruolo di prefissare il concreto modello di società che corrisponde agli stessi principi fondamentali: cioè sono delle previsioni che, come abbiamo appena detto, segnano “un percorso in assenza del quale i principi-fini rimarrebbero in costante pericolo di rimanere irrealizzati”.
Se questa è la posta in gioco, dovremmo assumere una “revisionabilità” di tali norme soltanto, come si dice nel linguaggio giuridico, “in melius”: cioè a condizione che le norme di emendamento costituzionale risultino obiettivamente volte a precisare ed ampliare, i compiti generali e gli indirizzi incombenti sulle istituzioni democratiche, al fine di dare una più piena realizzazione ai diritti fondamentali.
Ne risulterebbero perciò, dal punto di vista dell’art.139 Cost., esclusi quei mutamenti di testo e di senso sostanziale delle norme che possano invece rendere più aleatoria e ristretta la tutela e la realizzazione nel tempo degli stessi diritti.
Questo “metro di giudizio” interpretativo finisce per applicarsi, ad esempio, alla previsione del pareggio di bilancio, che, non contenuta nella Parte I della Costituzione, “a maggior ragione”, non può sottrarsi a una verifica di compatibilità funzionale con la realizzazione dei diritti fondamentali.
Valore assimilabile ai principi fondamentali (cioè livello di forza costituzionale rafforzata, non rivedibile), poi, hanno taluni principi, del diritto internazionale generale e dei Trattati legati al fenomeno del diritto europeo.
Queste enunciazioni vanno però sempre assunte, in quanto derivanti da una fonte pattizia internazionale, nei limiti segnati dall’art.11 Cost.: ciò in quanto comunque derivanti da accordi che, svoltisi tra le organi statali dotati del potere negoziale attribuito dalle norme interne, in conformità ai criteri di legittimazione del diritto internazionale, rivestono sempre la natura di “fonte derivata”, non ascrivibile al Potere Costituente originario che è alla base delle Costituzioni: vanno perciò presi in considerazione laddove riflettano, cioè si pongano senza equivoci “in armonia con”, per l’appunto, i “principi fondanti” della Costituzione italiana, intesi nel senso espanso sopra precisato.
E non, invece, quando costituiscano soltanto una delle varie possibili soluzioni, alternativamente possibili, ad un certo aspetto della cooperazione per “la pace fra le Nazioni” (art.11 Cost.), e, peraltro, andando subordinati o disattesi quando non risultino con evidenza compatibili con i principi fondamentali della Costituzione.
In tal senso, oltre a un complessa vicenda di integrazione tra giurisprudenza della Corte costituzionale e quella di giustizia europea, depone il valore meramente ricognitivo, e quindi “aperto” alla costante verifica di compatibilità qui precisata, dell’art.117, comma 1, Cost.: ”La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali…”
L’indicazione prioritaria della Costituzione “primigenia” (per usare la locuzione di Mortati), come termine di paragone della “compatibilità”, vale obiettivamente pure rispetto all’ordinamento comunitario e agli obblighi derivanti dagli atti che in esso variamente si inscrivono.
3- REVISIONE COSTITUZIONALE E SINDACATO DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE.
Proprio la fortemente controversa esperienza dell’inserimento del c.d pareggio di bilancio nel testo Costituzionale, pone già una prima esigenza di precisare i limiti e i presupposti che, già oggi, in una lettura della Legge Suprema dello Stato aderente alla volontà espressa in sede “costituente”, si impongono non solo alla revisione costituzionale in sé considerata, ma alla stessa interferenza dei trattati internazionali sui principi immodificabili che caratterizzano il nostro ordinamento costituzionale.
In proposito si richiama l’art.11 Cost. che, va rammentato, non a caso è inserito tra i “principi fondamentali” ed è quindi parte delle norme inviolabili e inemendabili nella stessa sede di revisione. Il suo testo è estremamente stringente nel configurare le condizioni rigorose che possono far accedere alle (mere) “limitazioni di sovranità”. Queste ultime, non costituiscono dunque, alla lettera e nella sostanza, delle (mai menzionate) “cessioni”, cioè devoluzioni a titolo definitivo a soggetti estranei alle istituzioni democratiche italiane, ma mere parziali “compressioni”, necessariamente transitorie e reversibili, in quanto ammesse solo se funzionali agli scopi indicati nell’art.11 stesso e come tali soggette all’obbligo, incombente sulle istituzioni democratiche di governo, di una costante, cioè continuativa, verifica della presenza e del mantenimento delle condizioni effettive che giustificano tali “limitazioni”.
L’art.11 recita:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
E’ chiaro, a fronte di una qualsiasi elementare interpretazione letterale e sistematica della Costituzione, che anche queste “deroghe”, – parziali, transitorie e reversibili, in quanto costantemente soggette alla verifica di attuale funzionalità agli scopi fissati dall’art.11, – incontrano gli stessi limiti di contenuto della stessa possibilità di revisione costituzionale. E ciò “a maggior ragione” essendo, quelli posti nei trattati internazionali, sempre dei contenuti e dei vincoli subordinati alle norme della Costituzione primigenia nel livello delle fonti.
Di conseguenza, tali contenuti e vincoli non possono mai contrastare le parti della Costituzione primigenia non assoggettabili a revisione nei sensi indicati al paragrafo precedente.
Poiché, invece, leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali sono state approvate senza porsi il problema delle ricadute dei trattati stessi sulla immodificabilità dei principi fondamentali, nonché della parte “coessenziale” delle norme della stessa Costituzione primigenia che ne riflette la diretta attuazione, si rivela utile meglio esplicitare una formula dell’art.139 Cost. che sia chiarisca questo punto, pur corrispondente a quanto ritenuto in via interpretativa dalla originaria dottrina costituzionale e dalla stessa giurisprudenza della Corte costituzionale (aggiunte in neretto):
Art.139.
“La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, né essere derogata dalle fonti pattizie di cui all’art.11. In essa sono inclusi tutti i principi fondamentali di cui agli articoli da 1 a 12 nonché i principi sociali, economici e organizzativi che ne assicurano la effettiva e inderogabile realizzazione. In nessun caso possono essere apportate modifiche alle restanti norme costituzionali se non per i fini di cui all’art.3 comma 2, e fatto comunque salvo il carattere solidaristico e fondato sul lavoro dell’ordinamento repubblicano democratico”.
2.1. Profili di tutela effettiva dell’integrità della Costituzione relativi al sindacato di legittimità costituzionale.
Precisato come e perché l’incidenza del diritto internazionale derivante da Trattati di qualunque genere (c.d. diritto internazionale “pattizio”) non possa mai varcare la soglia dei principi fondamentali e delle loro proiezioni di principio direttivo per l’azione delle Istituzioni democratiche repubblicane, si pone il problema di come garantire la verifica di compatibilità del diritto internazionale pattizio nei segnalati termini di una corrispondenza alle condizioni poste dall’art.11 Cost., verifica che risulti non solo costante nel tempo ma anche tempestiva (non tollerando, i principi fondamentali, una compressione prolungata neppure “de facto”).
Il problema del sindacato di legittimità costituzionale in termini di “prevenzione” di effetti applicativi contrari all’ordine costituzionale, spesso perduranti nel tempo e con l’attitudine a divenire irreversibili (in virtù del principio dei “rapporti esauriti”, configurato variamente e non sempre in modo “lineare”, dalla stessa Corte costituzionale), si pone in realtà di fronte ad ogni espressione del potere legislativo.
La recente vicenda della legge elettorale ne costituisce una vistosa conferma.
Il modo più efficiente per minimizzare gli inconvenienti connessi alla (eccessiva) distanza di tempo tra introduzione di una legge sospetta di incostituzionalità e pronuncia che la dichiari quando ormai tale legge ha dispiegato una consistente serie di effetti (lesivi dei beni costituzionalmente protetti), è quello di introdurre un sindacato diretto della Corte non connesso alla rimessione “incidentale”, da parte di un giudice investito di un’autonoma controversia, nella materia coinvolta nell’applicazione della legge stessa, nell’ambito di un giudizio “ordinario”.
Questo è infatti, essenzialmente, il sistema attuale di più frequente origine degli interventi della Corte costituzionale, (salvo altre tipologie di controversie devolute alla Corte ma non direttamente e, allo stato dei fatti, sistematicamente ricollegabili ala problematica qui evidenziata).
Prefigurare un sistema di rimessione “diretta” (extra judicium già pendente) da parte di una minoranza qualificata del Parlamento, in concomitanza con un analogo ed autonomo potere dello stesso Capo dello Stato, garantisce la massima rapidità della pronuncia della Corte e non risulta in alcun modo escluso dall’art.134 Cost., (in particolare dal suo primo comma, primo alinea): ciò in quanto le leggi costituzionali che hanno previsto il sistema c.d. incidentale (in specie le LL. Cost. 9 febbraio 1943, n.1, e 11 marzo 1953, n. 87), risultano integrabili, nel normale rapporto tra norme successive di pari rango, con rinnovate previsioni di legge “revisionale”, avente cioè rango costituzionale, quali quelle qui ipotizzate.
Si propone pertanto di introdurre delle opportune modifiche che, inerendo all’esercizio delle funzioni degli organi legislativi deliberanti e al relativo procedimento, si inseriscono più propriamente negli artt.70 e ss. della Sezione II (“La formazione delle leggi”) del Titolo I (“Il Parlamento”) della Parte II della Costituzione (“Ordinamento della Repubblica”).
Queste le norme di revisione ipotizzabili (in neretto le parti da aggiungere al testo attuale):
Art.71 Cost.
“L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale.
Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli. Un disegno di legge può essere approvato e, successivamente, promulgato, solo se indichi l’esatta disposizione della Costituzione che intende attuare o specificare, e fatti salvi i limiti comunque sanciti dall’art.139”.
Art. 73 Cost.
“Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica non prima di un mese dall’approvazione.
Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti, ne dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito.
Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso.
Entro il termine di promulgazione, comunque stabilito, un numero di componenti della Camera che ha approvato la legge pari ad un quinto (in alternativa: un terzo) dei componenti complessivi della medesima, può promuovere il giudizio di legittimità costituzionale della legge approvata, con ricorso indicante gli specifici profili di suo manifesto contrasto con le norme costituzionali e depositato senza ulteriori formalità presso la Corte costituzionale.
In tal caso, dal momento del tempestivo deposito del ricorso e fino alla pubblicazione della pronunzia della Corte che escluda la illegittimità costituzionale o che dichiari l’inammissibilità o la tardività del ricorso proposto, è sospeso il termine di promulgazione.
Nello stesso termine, decorrente dall’avvenuta comunicazione ai fini della promulgazione, e fatta salva la facoltà prevista dall’art.74, il Presidente della Repubblica può, agli stessi fini, rimettere la legge medesima alla Corte, deducendo eventuali autonomi ed ulteriori profili di manifesto contrasto con le norme costituzionali.
Sui giudizi promossi ai sensi del presente articolo la Corte si pronunzia, mediante pubblicazione del dispositivo, entro sessanta giorni dall’ultimo deposito del ricorso proposto dai soggetti legittimati.
Nello stesso termine il Parlamento in seduta comune può deliberare la riapprovazione della legge stessa modificata, nelle disposizioni oggetto delle censure di legittimità costituzionale devolute alla Corte, in senso conforme a quanto denunziato nel ricorso, ovvero approvare un testo di legge che non includa le disposizioni medesime e limiti il suo contenuto alle disposizioni non oggetto di censura, attendendo la pronunzia della Corte.
Nel caso in cui tale pronunzia escluda le prospettate illegittimità costituzionali o dichiari la inammissibilità o tardività dei ricorsi presso di essa depositati, il Parlamento in seduta comune può nuovamente approvare le medesime disposizioni stralciate, con separato atto legislativo.”
4- NORME COSTITUZIONALI E LEGISLATIVE CORRETTIVE DELLE CRITICITA’ ATTUALI CONNESSE ALLA FUNZIONALITA’ SOSTANZIALE DELL’ORDINAMENTO DEMOCRATICO.
4.1. Rafforzamento della tutela del risparmio nell’esercizio della politica monetaria e dell’attività bancario-finanziaria, in armonia con i “Principi fondamentali” della Costituzione.
In base ai saldi del c.d.”sistema della contabilità nazionale”, il risparmio del settore privato – che la Costituzione già ora intende come “bene” legato sia alla sua massima diffusione tra tutte le classi sociali, e pertanto come strettamente connesso alla equità della retribuzione di ogni forma di lavoro- è direttamente legato all’indebitamento annuo del settore pubblico nonché al saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.
Quest’ultimo saldo, a sua volta, è connesso, in modo più immediato, nel breve periodo, al valore di cambio della moneta in uso rispetto alle altre valute, e inoltre, nel medio-lungo periodo, al livello degli investimenti effettuati (dal settore privato e da quello pubblico), livello che, a sua volta, dipende dal realizzato volume del risparmio nazionale.
E’ d’altra parte evidente la relazione di trasformazione del risparmio in investimento, che può essere incentivata dal settore pubblico mediante politiche espansive in periodi di stagnazione o recessione, ovvero mediante politiche fiscali restrittive in fasi di crescita. In sostanza, l’indebitamento del settore pubblico è la principale leva per stabilizzare il ciclo economico nelle sue varie fasi e consentire le c.d. politiche anticicliche di correzione degli squilibri della domanda aggregata.
Per tali motivi la funzione del risparmio, nei processi di sua formazione, è inscindibilmente connessa alle politiche fiscali e monetarie che uno Stato sovrano deve essere in grado di poter effettuare.
L’attuale situazione di prolungata recessione, susseguente a un periodo di ancor più lunga stagnazione e attenuazione (anche futura) della crescita, appare perciò manifestamente connesso alla privazione, imputabile ai vincoli monetari e fiscali imposti dall’adesione all’Unione europea ed alla connessa Unione monetaria, di questa possibilità di svolgere politiche anticicliche e di non poter pertanto proseguire nel compito di formazione e distribuzione “diffusa” del risparmio quale originariamente previsto dalla Costituzione (in termini espliciti configurati dall’intera formulazione dell’art.47 Cost.).
Al riguardo va segnalato come lo schema europeo della banca centrale “indipendente” accompagnata dal divieto di acquisto diretto dei titoli del debito pubblico emessi in corrispondenza dell’indebitamento annuale del settore pubblico, unito alla fissazione di un tetto prefissato, e comunque immutabile (indipendentemente dal ciclo economico), all’indebitamento stesso, prefiguri una costante soluzione in cui non solo si verifica un minor “reddito” nazionale, contraendosi, in funzione indipendente dal ciclo, lo stesso risparmio (e la connessa capacità di investimento), ma nella quale si verifica altresì la concentrazione del risparmio nelle mani dei detentori del debito pubblico, che divengono di fatto, nella schiacciante maggioranza, grandi istituti bancari nazionali ed esteri (in tale ultimo caso, andando a sottrarsi del tutto all’ammontare del reddito e del risparmio nazionale).
Tale soluzione comprime le possibilità di autofinanziamento delle imprese e redistribuisce la ricchezza nazionale verso il sistema finanziario (detentore di oltre l’87% dei titoli del debito), come è reso evidente dalla crescente (anzi totalitaria) incidenza dei sempre maggiori interessi sul debito pubblico rispetto alla stessa formazione dell’indebitamento annuale.
Quest’ultimo, infatti, risulta addirittura, per effetto del vincolo europeo, inferiore al loro onere complessivo rispetto al PIL e dunque fronteggiato mediante il costante raggiungimento di un avanzo primario che, in condizioni di mancata espansione della domanda, dovuta tra l’altro al venir meno della domanda estera, (in condizioni di cambio della valuta unica non corrispondenti al livello naturale “nazionale”, corretto a seguito dei differenziali di inflazione rispetto agli altri partecipanti alla stessa Unione monetaria), finisce per costituire il principale freno alla crescita del reddito nazionale.
A fronte del drammatico protrarsi di questa situazione, si rende altamente opportuna una maggior chiarezza nella formulazione dell’art 47 Cost., in modo da evitare che ogni forma di risparmio, di investimento e di adeguata crescita sia impedita dalla mancata formazione e distribuzione all’interno del settore privato non finanziario, con costante sbilanciamento a favore del settore finanziario stesso, sottoscrittore dei titoli del debito.
Va, per contro, incentivata la formazione del risparmio di famiglie e imprese, come prima forma della sua “tutela” assunta senza equivoci, e fin dall’origine, dalla Repubblica. E questo è evidentemente realizzabile solo se si rinunzia a sacrificare la titolarità e la flessibilità della politica monetaria che, attraverso l’adeguata provvigione di nuova liquidità, consente di mantenere la crescita di garantire anche il risparmio depositato presso il sistema bancario.
Va inoltre rammentato che l’indebitamento annuo e lo stesso stock del debito pubblico, purché il relativo onere degli interessi sia mantenuto entro limiti ragionevoli, (cioè entro l’ammontare della crescita nominale attesa del prodotto interno lordo), in virtù dell’intervento diretto della banca centrale, svolge una funzione di garanzia degli stessi risparmi depositati per un corrispondente ammontare.
In coerenza con queste premesse, si propone che l’art.47 della Costituzione sia così modificato (modifiche in neretto):
“La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, disciplina coordina e controllal’esercizio del credito nonché, attraverso le forme di direttiva e coordinamento demandate dalla legge al Governo, in armonia con l’indirizzo espresso dal Parlamento, l’emissione della moneta avente corso legale, al fine di salvaguardare l’effettività del diritto al lavoro e ad un’equa retribuzione, quali presupposti di un risparmio diffuso e armonico con le esigenze di sviluppo della Nazione (artt.1, 4 e 36).
Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese. La legge determina le tipologie degli istituti bancari e le operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito, nonché quelle di investimento finanziario, consentite a ciascuna tipologia, disciplinando le diverse modalità di coordinamento e vigilanza esercitate dagli organi dello Stato”.
4.2. Libertà e trasparenza dell’informazione in piena attuazione dell’art.21 Cost.
Il legame tra gli interessi privati dei “poteri di fatto” economico-finanziari e la difficoltà di garantire una corretta informazione si manifesta nell’assetto proprietario delle società editrici di ogni tipo di “medium” (per prime, stampa e televisione), suggerendo di por mano ad una nuova disciplina della materia “informazione” conforme all’art.21 Cost.
Se in base all’art.21 stesso, comma 2, “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
L’implicito ma necessario presupposto di ciò è che, secondo il comma 1 dello stesso articolo, ciò garantisca che “Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero…”, enunciato principale e prioritario che rinvia alle problematiche di promozione della “effettività” della generale espressione e partecipazione democratica accessibile a “tutti”, quale insita nella fondamentale previsione dell’art.3, comma 2, della stessa Costituzione.
Questo quadro di premessa costituzionalmente necessitata, suggerisce di configurare una situazione di eguaglianza sostanziale e di conseguente “neutralità” dell’accesso al mercato dell’informazione, funzionali a tale effettività generalizzata all’espressione del pensiero, configurando l’impresa mediatica come “editore puro”.
Ciò è implicito nello stesso art.21, laddove prevede che “La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che sino resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica”. Tale disposizione implica di necessità che:
a) la proprietà del mezzo di informazione non possa essere attribuita direttamente a chi sia un soggetto economico del settore finanziario o di dimensioni economico-finanziarie (realizzate al di fuori del settore dell’informazione) tali da coincidere con la figura del finanziatore, per evitare un conflitto di interessi che vanificherebbe la stessa trasparente conoscibilità delle fonti di finanziamento (che è un mezzo a tale fine preventivo del conflitto di interessi stesso);
b) ogni mezzo di finanziamento sia reso noto in modi adeguati alla complessità sociale e tecnologica, (posto che ogni mezzo di diffusione del pensiero deve consentire l’accesso a “tutti”), siano costantemente divulgati con un inequivocabile chiarezza ed immediatezza.
Queste due esigenze possono essere realizzate attraverso il divieto di partecipazione, alla proprietà delle imprese che gestiscono mezzi di informazione, di soggetti portatori naturali di conflitto di interesse nei sensi sopra individuati. In particolare:
1. la legge di attuazione dell’art.21 Cost. stabilisce l’incompatibilità tra la figura di azionista della società editrice e quella di azionista o legale rappresentante di società bancarie, finanziarie o comunque industriali in posizione dominante nel rispettivo mercato, o di società da esse controllate;
2. l’azionista delle società editrice dovrà essere prioritariamente una persona fisica, estranea al novero dei soggetti di cui al punto 1, tranne il caso di partecipazione di una società editrice al capitale di un’altra. Ma sempre garantendo delle precise soglie di “quote di mercato” (in termini di raccolta della pubblicità) che, anche tramite partecipazioni oltre una certa consistenza, non possono essere superate da un singolo soggetto (direttamente come persona fisica titolare delle quote di proprietà, o indirettamente, tramite partecipazioni societarie a lui comunque riconducibili: cioè, anche attraverso intestazioni fiduciarie a parenti entro il terzo grado, ovvero più in generale a “prestanome” che non possano giustificare autonomamente i mezzi finanziari alla base della partecipazione, se non, appunto, in termini obiettivi di collegamento con altro soggetto “fiduciante” ed effettivo finanziatore);
3. l’incompatibilità tra la figura di azionista della società editrice e quella di azionista o legale rappresentante di società bancarie, finanziarie, o comunque industriali in posizione dominante nel rispettivo mercato o di loro controllate, deve accoppiarsi con l’obbligo di trasmettere ciascun programma di informazione, in quanto “pubblico servizio”, facendo passare costantemente in sovraimpressione, in basso una dizione del tipo: “all’indirizzo “URL”, sono indicati i nomi degli azionisti della società editrice e quelli degli azionisti delle società finanziatrici nonché la relativa consistenza del finanziamento erogato, ai sensi dell’art x della legge Y”.
Corrispondenti informazioni devono essere contenute in apposito e visibile spazio di ogni testata cartacea;
4. l’accesso ai sussidi pubblici all’editoria è subordinato all’accertato rispetto di queste ultime regole sulla trasparenza, la cui osservanza è garantita attraverso la verifica effettuata da una pubblica autorità in funzione di controllo “neutrale”. Quest’ultima, cioè, dovrà essere svincolata dagli indirizzi politici transeunti delle maggioranze di governo e composta da persone, scelte in elenchi costantemente aggiornati tenuti presso un’apposita commissione bicamerale, che posseggano specifici ed elevati requisiti di indipendenza e di competenza professionale, rigorosamente specificati ed accertati.
5- AUTONOMIE LOCALI E PREVISIONI EUROPEE.
Tra gli obblighi di “compatibilità” cui devono adeguarsi le norme di revisione costituzionale assume rilievo (subordinato al nucleo essenziale della Costituzione “primigenia”), ai presenti fini, quello derivante dalla “Carta europea delle autonomie locali”, ratificata dall’Italia con legge 30 dicembre 1989, n.439, ancorabile oggi all’art. 4, par. 2, del Trattato sull’Unione europea, c.d. TUE.
Orbene tale “Carta” nel suo valore vincolante, riguarda le autonomie locali, assunte come enti esponenziali delle comunità locali.
Ma, per essa, tali sono, con evidenza, solo quelli “preesistenti” alle vicende politiche dello Stato costituzionale, aventi cioè un valore di autonomia che prescinde dalle vicende storiche che caratterizzano la “statalità” di più ampi territori, mutevole e non coincidente con la continuità “antropologica” delle comunità locali, intese come insediamenti urbani organizzati e costanti nel tempo, cioè come “città”.
Ciò è confermato nelle specifiche disposizioni della Carta europea che tutela le “autonomie locali” da interferenze di livello superiore, statali o regionali, (art.4, par.4), e lascia chiaramente intendere che il concetto dell’autonomia locale oggetto di disciplina non coincida con quello di qualsiasi livello territoriale intermedio “superiore”, fino agli Stati.
Argomenti si possono anche ritrarre dagli articoli. 8, che limita la “supervisione” ai casi previsti dalla costituzione per le sole “autonomie” locali, e 10, che considera l’associazionismo delle “autonomie” senza menzionare enti autonomi “intermedi” che ne sarebbero la risultante.
Valore sistematico decisivo, se non di interpretazione autentica, ha poi la successiva Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” (2010/C-2010), incorporata nel Trattato, che all’art.40, tutela soltanto il diritto di eleggibilità di ogni cittadino europeo con riferimento ai “comuni” in cui risieda, senza fare, in alcuna sua parte, riferimento a enti autonomi territoriali di più ampia dimensione.
In tal senso, l’attuale previsione dell’art.114, comma 1, Cost. (“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”) non assume dunque valore di principio fondamentale, immutabile: né alla luce dei principi fondamentali costituzionali (come si dirà meglio) né alla luce delle previsioni comunitarie a valore costituzionale rafforzato.
Ed infatti, quanto a principi fondamentali della Costituzione, l’art.5 Cost. è di per sé in perfetta linea con la Carta europea, perché “vincola” la Repubblica a “riconoscere e promuovere” solo le autonomie locali preesistenti allo Stato repubblicano, ciò nel senso storico-sociologico illustrato e recepito anche nella Carta, col risultato che solo gli enti denominati Comuni sono “preesistenti”, e quindi suscettibili di essere “riconosciuti” e non creazione “politica” storicamente mutevole.
Per il resto l’art.5 Cost., unica norma tra i principi fondamentali “nazionali” che si occupi della materia, predica il “più ampio decentramento amministrativo” nonché l’adeguamento della legislazione “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”, con ciò rendendo prescrittivo solo un complessivo principio di “vicinanza” dei procedimenti normativi e delle funzioni amministrative al livello territoriale, perfettamente in linea con l’ampio ed elastico principio di “sussidiarietà” di fonte europea, cioè vicinanza funzionale dell’azione dei pubblici poteri ai cittadini, non legata ad una soluzione necessitata di entificazione di autonomie territoriali più vaste dei comuni.
Ne discende che, ferma restando l’autonomia dei comuni, come espressione del concetto di “autonomia locale”, tutto il resto è assoggettabile a revisione, purché non siano lesi i principi del decentramento e della sussidiarietà, cioè della vicinanza agli amministrati delle funzioni pubbliche anche solo statali, e sia garantito un certo grado di “autonomia”, cioè la possibilità di emanare norme giuridiche regolanti gli interessi rappresentati, che è insopprimibile solo per i comuni e, per il resto, dipende dalla legislazione dello Stato in quanto conforme alle previsioni costituzionali, comunque, in tale parte, soggette a legittima revisione.
6- IPOTESI DI INTERVENTO DI REVISIONE COSTITUZIONALE DELLE REGIONI E DEGLI ENTI LOCALI
Alla luce di questo excursus di premesse, si può ipotizzare una revisione costituzionale così congegnata:
– abolizione delle regioni quali enti a governo “politico” (assembleare-elettivo di “indirizzo politico autonomo e riservato”), ridisegnandoli come enti di “autogoverno”, nel senso “originario”\anglosassone (GB), – mantenendone l’“esistenza” e la “funzionalità” operativa, cioè il contenuto essenziale ricavabile dai principi guida della Costituzione in materia (secondo il criterio relativo alle norme “organizzative” in precedenza indicato) – cioè come enti che:
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pur “statali”, nel senso di inserirsi nella organizzazione dello Stato-ordinamento della Repubblica (esponenziale dello Stato-comunità, nella considerazione dell’interesse pubblico e del benessere generali), siano strutturalmente vicini ai cittadini realizzando la sussidiarietà, ma non siano dotati di autonomia legislativa, cioè di partecipazione diretta alla funzione politica normativa, bensì solo di autonomia regolamentare attuativa delle leggi statali;
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per garantire il raccordo con le comunità territoriali corrispondenti, e l’adeguamento al principio di autonomia flessibile previsto dall’art.5 Cost e dalla Carta, l’autogoverno, che è “buona amministrazione” territoriale, potrebbe implicare l’elezione, da parte della comunità territoriale corrispondente, del solo vertice preposto all’organo (di decentramento) regionale che, data la sua forte vocazione tecnica, dovrebbe avere una coerente disciplina della eleggibilità passiva;
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in sostanza, (come verrà specificato al punto seguente), il consiglio regionale verrebbe sostituito da sindaci in rappresentanza dei comuni del corrispondente ambito territoriale, in funzione istruttoria e deliberante; le giunte e l’organo promulgatore-controllore in ultima battuta (potere esecutivo di indirizzo e di gestione attuativa), sarebbero incarnati (sostituiti organizzativamente) dal presidente, elettivo, dell’ente “maggiore”.
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Il numero dei rappresentanti delle assemblee regionali (o di livello provinciale, per quanto conservate in funzione istruttoria-deliberante per le funzioni pianificatorie-regolamentari conservate a tale livello), potrebbe concepirsi in una ratio circoscrizionale corrispondente a un certo numero minimo di abitanti: cioè, accorpando (a fini di auto-designazione da parte del relativo “corpo” dei sindaci) i comuni minori in circoscrizioni demograficamente omogenee (e tarate sul numero di abitanti dei comuni maggiori presenti nella provincia o regione), si esprimerebbe un sindaco-rappresentante per ogni “circoscrizione”, predeterminando il numero dei “collegi”, e quindi il numero di rappresentanti che deve esprimere l’elezione da parte degli stessi sindaci, in funzione della consistenza demografica della stessa regione considerata ;
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Il sistema eliminerebbe gli organi elettivi di livello regionale e provinciale, ma garantirebbe la legittimazione rappresentativa-elettorale delle assemblee. Ne sarebbe valorizzata la duplice legittimazione del ruolo dei sindaci, investiti simultaneamente di processi decisionali monocratici a livello locale e collegiali-assembleari a livello territoriale superiore. Con ciò semplificandosi l’articolazione e la disfunzionale frammentazione dei processi decisionali, oggi articolati su livelli diversificati e spesso contrapposti, senza reali possibilità di sintesi decisionale che superino eccessivi “particolarismi”. Ci si riferisce alla difficile esperienza delle “conferenze di servizi” (o organi analoghi previsti da leggi specifiche, statali o regionali), qui risolta: i) sia a livello di venir meno della contrapposizione “centro-regioni”, data la nuova configurazione della regione (e, per quanto ritenuto razionalmente legato al relativo territorio, delle province), come organo statale decentrato; ii) sia contestualizzando nella collegialità assembleare la composizione degli interessi del minore livello territoriale.
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In questo quadro costituzionale, appunto, il “vertice elettivo” dell’organo decentrato statale “regione”, esprime bensì l’indirizzo dell’organo-ente in autonomia, ma questa risulta pur sempre attuativa rispetto all’indirizzo politico ministeriale-governativo che ritorna a prevalere nella sua unitarietà. Ciò, logicamente, in quanto tale indirizzo “autonomo” dovrà essere espresso nel quadro della legislazione statale, del settore di volta in volta corrispondente, nonché in regolamenti e atti di indirizzo che preservino l’unità e la certezza del diritto e della sua applicazione.
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Rispetto alle deliberazioni preliminari delle assemblee associative dei “sindaci”, il vertice regionale avrà il naturale potere di modificare le proposte in sede approvativa solo nei limiti della maggior razionalità, efficacie ed efficienza, secondo il principio di proporzionalità applicato alla sussidiarietà. Trattandosi essenzialmente, nei vari livelli territoriali, di potestà normative e pianificatorie con contenuti tecnico-discrezionali, il potere di approvazione “modificativa” si risolverebbe in una verifica di coerenza logico-giuridica delle deliberazioni preparatorie con le risultanze istruttorie assembleari, che, come si vedrà al punto successivo, saranno “partecipate” dai cittadini. Il potere del vertice regionale, quindi, si colloca nel quadro della legittimità ordinamentale, a garanzia della coerenza nell’applicazione delle leggi e nell’applicazione dell’unitario interesse;
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tale principio di “proporzionalità” è meglio realizzabile, rispetto al caotico attuale assetto politico, attraverso la sottoposizione delle regole-atti pianificatori da introdurre, ad “Accertamento dell’impatto delle regolazione” (AIR), svolto, in fase di avvio, dagli uffici tecnici-amministrativi dell’ente “maggiore” e gestito in fase istruttoria “partecipata” dalle assemblee espresse nei modi anzidetti dai comuni, secondo acquisizioni e audizioni trasparenti e “regolate” dei principali soggetti e categorie interessate (c.d. stakeholders).
D’altra parte questa tipologia “oggettivata” di istruttoria degli atti normativi e pianificatori è conforme al criterio dettato dagli stessi trattati UE, dato che è esplicitamente enunciato nel protocollo 2 allegato ai trattati stessi, intitolato: “sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità”.
Detto protocollo, appunto, pone il principio dell’AIR come metodo preventivo di dislocazione e organizzazione dei “poteri locali” e dei vari livelli di governo territoriale. E introduce, come vedremo, una netta connotazione di democrazia diretta “partecipativa”.
A queste “assemblee” sarebbe fornita, così, la base, trasparente e oggettivata, su cui svolgere la partecipazione dei destinatari, mentre, al vertice elettivo, successivamente, il parametro del controllo in fase approvativa.
7- VANTAGGI IN TERMINI DI EFFICIENZA FUNZIONALE E DI RISPARMI FINANZIARI.
I vantaggi finanziari, e di semplificazione normativa ed amministrativa, di un tale sistema, (da introdurre con la revisione costituzionale qui ipotizzata), sono enormi.
L’aspetto preliminare comune e costante di tutti tali vantaggi è che si tratterebbe di una manovra di riduzione della spesa concretamente non depressiva, l’unica realizzabile (ad es; il “taglio” delle pensioni si traduce comunque in un più o meno ampio decremento del risparmio pubblico e privato, indicato anche in studi Bankitalia, e in un prolungamento della disoccupazione “giovanile”; in generale, la riduzione della spesa pubblica agisce in senso depressivo del PIL per un ammontare più che proporzionale alla dimensione della stessa riduzione, per effetto del “moltiplicatore fiscale”, quale rideterminato dallo stesso FMI; per la spesa pubblica sarebbe pari a circa 1,8-1,9, o anche superiore in fasi recessive come quella attuale).
Ecco i principali vantaggi:
1) taglio integrale (o comunque decisivamente consistente) dei costi di consigli e giunte regionali e provinciali. Soldi però resi disponibili per migliorare il livello dei servizi, non per effettuare semplici manovre di riduzione del deficit deprimendo però la domanda interna, cioè il PIL: si registrerebbe infatti il taglio integrale dei costi delle strutture di staff, pletoriche e clientelari, legate a tali organi, nonché delle relative “consulenze” (con gli stessi vantaggi di “riallocazione” delle risorse suddetti);
2) tramite le procedure di AIR partecipate, introduzione di una maggior democrazia diretta, “in funzione delle conoscenze effettive”, e di una più trasparente ed efficiente gestione dell’attività normativa e pianificatoria;
3) trasferimento del personale impegnato nelle strutture di diretta collaborazione con consigli e giunte negli uffici operativi (di “line”), con incremento dell’efficienza dell’azione amministrativa decentrata e risparmi potenziali consistenti, su nuove assunzioni e trattamenti economici aggiuntivi, che spesso sono attribuiti con facilità a tale personale (risparmi generali deriverebbero pure dall’assoggettamento del personale alla contrattazione del comparto statale-ministeri, tendenzialmente meno “largheggiante” nelle retribuzioni a parità di livello);
4) concepiti come organi statali di decentramento, dialoganti con comuni e assemblee democraticamente rappresentative degli stessi, questi enti sarebbero resi più efficienti dalla eliminazione delle difficoltà di identificazione delle materie di rispettiva competenza legislativa tra Stato e regioni, dato che la legislazione primaria sarebbe tutta di spettanza statale e su tutte le materie ora regionali sarebbe di “quadro” e, laddove, ragionevolmente e secondo il caso, la legislazione statale si autodetermini come “non auto-applicativa”, “concorrente”, ma con norme regolamentari, sia statali che, in progressione attuativa “sussidiaria”, regionali (a loro volta, gerarchicamente più forti di quelle degli enti locali minori, ma solo se non varchino i limiti di loro autonomia sanciti nella revisione costituzionale).
Si pensi alla semplificazione, da uniformità e univocità legislativa, di materie come la VIA (valutazione impatto ambientale), l’incentivazione energetica e all’impresa in generale, localizzazione e realizzazione coordinata delle infrastrutture e via dicendo;
5) l’uniformità e la maggior chiarezza normativa, lasciata essenzialmente alla legislazione primaria statale, si coniugherebbe alla uniformità e reale depoliticizzazione delle decisioni pianificatorie e provvedimentali, che divengono strutturalmente più resistenti a interessi locali “particolari” (quindi intrinsecamente più razionali ed efficienti) e meno affette da illegittimità (se non “illiceità”) dovute alla scarsa trasparenza insita nella contingente formazione di maggioranze politiche.
Le stesse decisioni sarebbero, per converso, mediante i vari livelli di “accertamento dell’impatto regolatorio”, espressione di più intensa democrazia diretta e più attente al concreto interesse della comunità, che risulterà (finalmente) “misurato” in modo oggettivo e considerato in modo “imparziale”, con massimizzazione dell’efficienza (art.97 Cost.);
6) il controllo statale su tali “propri” organi decentrati “atipici e ad autonomia speciale” è già in sé una efficace misura preventiva degli sprechi e di illegittimità/illiceità gravi. Esso sarebbe bilanciato, nella sua incidenza limitativa delle (preesistenti) più ampie autonomie, dalla garanzia partecipativa dei cittadini in sede normativa e pianificatoria di livello regionale o provinciale, rafforzata e oggettivata dalle procedure di AIR. Ciò in vista di una deliberazione preparatoria assembleare, rispetto a cui ogni comune, ove fosse coinvolto esclusivamente il proprio territorio, conserverebbe comunque le attuali proprie competenze pianificatorie di “adozione-proposta”;
7) in conformità del predetto ampliamento della democrazia partecipativa (con un grado di realizzazione della sussidiarietà ben più forte, rispetto all’attuale formula dell’autonomia con sistema elettivo rappresentativo) si può sancire la regola generale di referendum propositivi e abrogativi (regolati con legge dello Stato in base a previsione costituzionale) rispetto alle norme emanate da tutti tali livelli territoriali (inclusi i comuni), come, d’altra parte, prescrive, in termini di direttiva, l’art.4 della Carta europea delle autonomie locali, rimasto in gran parte in attuato;
8)semplificazione tributaria-finanziaria, per riscossione e perequazione: ciò in quanto tutti i tributi ridiventerebbero statali, tranne quelli direttamente spettanti ai comuni e, in più, in relazione ad una spesa strutturalmente snellita e più agevolmente controllabile (logistica, mezzi, personale).
8- RISPARMI “DIRETTI” E “DI SISTEMA”.
Si segnala come i risparmi complessivi così ottenibili risultano immediatamente di entità tale da avere un effetto di sensibile correttivo della spesa pubblica, non depressivo, atteso che, come si è dianzi precisato, lo stesso “ammontare” di funzioni e servizi sarebbe anzi gestito con maggior personale, recuperato e meglio distribuito, e, grazie anche a “maggiori risorse” reperite (vera “spending review“), con maggior uniformità e snellezza.
Le spese degli organi istituzionali elettorali di regioni e province (indennità, forme di retribuzione diretta, logistica) sono oggi pari a circa il 50% delle spese istituzionali nazionali della intera “politica elettiva”.
Il resto di tali voci complessive di spesa è suddiviso tra il Parlamento che ne rappresenta il 20,3%, laddove i consigli e le giunte comunali ne costituiscono il 30%, ammontare che peraltro assorbe il 55% dell’addizionale IRPEF comunale!
Il volume totale dei tagli per spese di organi politico-elettivi di regioni e province porta a 1,6 miliardi di euro di risparmi immediati, (dati UPI confrontati con dati UIL, sulla base di diverse voci analizzate dal Ministero dell’interno e Corte dei conti: la cifra globale assorbe circa il 19% del gettito dell’addizionale IRPEF regionale) ottenibili senza, si ripete, tagliare servizi e funzioni, che comunque potrebbero essere più facilmente razionalizzati con ulteriori risparmi.
Ciò senza contare i risparmi da consulenze e personale di staff non appartenente ai ruoli degli enti, nonché di erogazione, al personale politico elettivo (e non), di fringe benefits (telefonino, rimborsi spese), risparmi che dovrebbero ragionevolmente equivalere a qualche centinaio di milioni.
E senza conteggiare, ancora, le spese di “rappresentanza”, in senso lato, dei consigli e delle giunte per viaggi, convegni, mantenimento di sedi a Roma, sedi a Bruxelles e relazioni internazionali tenute informalmente (spese che, probabilmente, se oggetto di seria indagine si scoprirebbero superiori a quella per le stesse “indennità”).
Basti dire che i costi complessivi di consulenze, incarichi e collaborazioni presso regioni, comuni e province (queste ultime, invero, in misura modesta) sono stimati in 3 miliardi annui e quelli per il personale di staff in circa 1,5 miliardi (in base alle medesima fonti sopra citate).
Su tali cifre globali di spesa, imputando una percentuale del 50%, corrispondente alla predetta incidenza generale dei costi “istituzionali” degli organi di vertice degli enti considerati (prudenziale, perché nel precedente calcolo era incluso anche il costo delle due Camere), si arriva a circa 2,2 miliardi. A cui vanno aggiunti i risparmi da riduzione del parco “auto-blu” e di future indennità pensionistiche.
Si può ipotizzare, per risparmi diretti ed immediati, un ammontare approssimativo (prudenziale) tra i 3,5 e i 4 miliardi, “a regime”, cioè per ogni periodo futuro di esercizio del bilancio (a fronte, si ripete, dello stesso livello quantitativo di funzioni e servizi, con probabile miglioramento del livello, per imparzialità e speditezza). Si tratta di un risparmio equivalente (se non superiore) a quello atteso dalla riforma delle pensioni 2011-2012.
Ma i risparmi da maggior efficienza, ridislocazione e minor complicazione dei processi decisionali pubblici (tra l’altro non soggetti a crisi assembleari e soluzioni di continuità) sarebbero ben più ampi, risolvendosi in una sostanziale misura di rilancio dello sviluppo, avendo un sicuro impatto sul lato dell’offerta (produzione), mentre la domanda pubblica (spesa) non diminuirebbe ma verrebbe riallocata in senso produttivo ed espansivo. Su tali aspetti si veda il paragrafo 7 sulla complessiva riorganizzazione delle materie e sulla legislazione che dovrebbe disciplinare questa stessa riorganizzazione.
D’altra parte le ricadute sarebbero tali e tante, (anche in termini di segnale all’Europa), che potranno emergere, oltre all’evidenza intuitiva, solo da un accurato esame dell’andamento della spesa in ambito regionale (principalmente), in relazione alla “depoliticizzazione” e maggior trasparenza del risultato pianificatorio, normativo e amministrativo; e ciò, appunto, perché la spesa si proietterebbe in un “ambiente istituzionale” in cui priorità dell’assegnazione delle risorse e esercizio della discrezionalità non sarebbero più frutto di geometrie politico-clientelari, ma formulate secondo criteri omogenei in funzione della efficacia ed efficienza della gestione.
9- REINTRODUZIONE CONTROLLI PREVENTIVI DI LEGITTIMITA’
La reintroduzione di tali controlli, venuti meno a seguito delle riforme della fine degli anni ‘90 e del Titolo V della Costituzione, si segnala come un’esigenza prioritaria, al fine di evitare che ogni assetto disfunzionale, sia in termini di legittimità che di efficienza ed efficacia finanziaria dell’intervento pubblico, sia filtrato e circoscritto sul nascere, evitando che possa, anche a lungo, dispiegare i suoi effetti e accumulare una complessiva situazione di contrarietà alle regole che impongono di realizzare razionalmente gli interessi pubblici che le norme stesse (di organizzazione e di azione dei pubblici poteri) intendono tutelare.
Tali controlli, inoltre, sono in sé un mezzo di prevenzione alla radice della stratificata complicazione normativa, in quanto incanalano l’applicazione delle norme verso gli obiettivi legali correttamente ed imparzialmente intesi, evitando di dover continuamente intervenire (com’è in effetti avvenuto, ad es; nella disciplina degli affidamenti dei ss.pp. locali, ovvero, più in generale nell’applicazione delle norme sui contratti pubblici), con nuovi provvedimenti normativi che cerchino di ovviare a distorsioni e lacune; queste risulterebbero colmabili più agevolmente in sede di decisione di controllo, orientata all’interesse generale e all’interesse pubblico di settore di volta in volta considerato, lasciando al (meno frequente) intervento legislativo solo quegli aspetti che non potessero trovare una soluzione interpretativa nell’interesse dell’ordinamento.
Questo un possibile schema riassuntivo della reintroduzione ed evoluzione aggiornata di tale forma di controllo.
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AMBITO. Atti normativi, pianificatori, atti di spesa e atti che coinvolgano interessi fondamentali del territorio (occorre definizione “univoca”); atti che avviano e disciplinano, in qualsiasi forma procedure di evidenza pubblica, intese come modalità concorrenziale di affidamento ed erogazione di qualsiasi beneficio o risorsa pubblica; atti di autotutela su scia (dia); atti relativi a bandi di concorso e in generale alla provvista del personale di ogni forma di soggetto pubblico (inclusivo di ogni forma di organismo finanziato da pubbliche risorse, per una quota maggioritaria o per cui comunque si riscontri una partecipazione pubblica di controllo); atti generali relativi all’organizzazione dei medesimi soggetti.
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POTERI E AMBITO DI COGNIZIONE (CONCETTO ATTUALE DI LEGITTIMITA’): a) annullamento e anche (fondamentale) potere di emendatio, cioè concessione termine con indicazione delle parti modificabili, e dei principi a cui attenersi, ove i vizi riscontrati non travolgano l’intero atto; b) sindacato di “legittimità”, ridefinito alla luce dell’art.1 della legge n.241/90 che includa, in tal modo, anche i profili logico-fattuali di efficienza ed efficacia/economicità. Penetrazione nell’ambito della discrezionalità tecnica (esclusa solo la discrezionalità pura, in quanto esplicitamente riconoscibile dal dato normativo);
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NATURA E POSIZIONE DEGLI ORGANI CONTROLLORI: portatori con massimo grado di NEUTRALITA’ DELL’INTERESSE GENERALE. Quindi organi statali con vari livelli circoscrizionali, da individuare nella Corte dei conti, nelle sue articolazioni, mediante suo potenziamento. Affiancata da “esperti” dotati di competenze tecniche per affinare il sindacato di “legittimità” sotto il profilo dei parametri di efficacia ed efficienza.
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Sugli atti che non rientrino nelle categorie sub 1, introduzione di filtro alla proponibilità dell’azione giurisdizionale amministrativa mediante SISTEMA DECENTRATO di ADR cioè di “risoluzione alternativa delle controversie”, anch’esso affidato ad organi decidenti neutrali, strutturati con ampia diffusione territoriale per favorire immediatezza di accesso e rapidità decisionale.
10- REVISIONE DELLA PRINCIPALE LEGISLAZIONE NELLE MATERIE GESTITE A LIVELLO REGIONALE.
La trasformazione delle regioni, e per converso degli enti locali di livello inferiore, in organi “decentrati” dello Stato, attuatori del suo prevalente indirizzo, implica un vasto ripensamento della legislazione e, quindi, del “titolo” per cui talune materie siano affidate alla gestione su base territoriale degli enti regionali.
In particolare, in ogni materia, a partire dalla gestione del territorio (in primis urbanistica, ambientale e paesaggistica), della localizzazione e realizzazione di opere pubbliche e da quella del servizio sanitario nazionale, si dovrebbe avere:
– la riqualificazione degli organi regionali (e sub-regionali) come organi decentrati dello Stato;
– il venir meno dei rapporti di duplicazione, per quanto ancora permangano, tra gli attuali organi decentrati dello Stato e gli organi regionali e sub-regionali. I rapporti di controllo “intersoggettivo” (es; fase del controllo paesaggistico affidato alle Sovraintendenze rispetto alle autorizzazioni “locali”), coordinamento e difficoltosa cogestione simultanea, in funzione di complesse e, ormai ingovernabili, sedi frammentarie e “conferenze di servizi”, dovrebbero essere decisivamente ridotti;
– si dovrebbe infatti procedere ad accorpamenti che unifichino, in funzione del ritrovato quadro unitario dell’indirizzo politico-amministrativo e legislativo, organi statali decentrati e organi regionali e sub-regionali, provvedendo alla razionaleridislocazione del relativo personale ed alla semplificazione contrattuale e retributiva dei vari settori;
– ciò implica una attenta ridefinizione della rilevanza delle materie affidate alla regione in sede regolamentare-attuativa, pianificatoria, ed amministrativa. In questo schema, la riaffermata esigenza di un indirizzo legislativo e, a livello amministrativo, “programmatico”, riunificato in sede “nazionale”, conduce alla corrispondente unificazione delle funzioni-procedure nonché, ad una fortissima convergenza degli standard dei costi di gestione amministrativa e dei contratti.
Il Presidente elettivo della Regione agirebbe come titolare di una posizione di “ufficiale del governo”, soggetto all’indirizzo del Ministro competente, unita a quella di autonomo gestore delle competenze normalmente attuative degli indirizzi del governo centrale, garantite con opportuni spazi di autonomia regolamentare (ma partecipata dalle comunità territoriali) e gestionale (c.d. “unione” personale, in una duplice configurazione organica, caratterizzata da diversi “titoli” e gradi di autonomia di indirizzo e di rispettiva vincolatività-dettaglio delle regole e determinazioni di livello centrale).
Le materie in cui si potrebbe rendere opportuna una certa sfera di autonomia regolamentare-pianificatoria, nonché gestionale, (gestione organica decentrata facente comunque capo alla responsabilità unificante dei Ministri), potrebbero essere, in prima approssimazione:
– pianificazione paesistico-territoriale e urbanistica (piani regolatori delle varie tipologie, soggetti cioè ad approvazione ministeriale, ovvero regionale dell’organo-ufficiale del governo, ma, in tal caso, nella cornice unitaria delle norme di legge primaria statali, Es; in tema di standards urbanistici o di regime concreto di vincolo tutorio imponibile sul territorio);
– programmazione e coordinamento in materia turistica, ma solo laddove la pianificazione-legislazione di livello statale esiga specifici adattamenti in funzione della “conoscenza storico-ambientale” locale;
– pianificazione e realizzazione attuativa, anche sotto il profilo finanziario, – con determinazione statale a monte, delle linee generali di armonizzazione, perequazione e priorità generale degli interventi-, delle opere pubbliche e delle infrastrutture localizzate ed impattanti, secondo un’evidenza oggettiva,nell’ambito regionale o sub-regionale;
– assistenza sanitaria nazionale con riconduzione della legislazione, e degli standards dei livelli minimi essenziali delle prestazioni, ad un quadro legislativo ed organizzativo unitario nazionale, collocando a livello regionale la gestione organica decentrata, sempre nel quadro legislativo e finanziario (determinazione dei costi, in particolare) unitario nazionale;
– politiche industriali e di sviluppo del territorio, pianificate e coordinate costantemente a livello centrale, ma gestite da organi decentrati dello Stato che siano intrinsecamente armonizzati allo stesso indirizzo e monitoraggio centrale;
Si ribadisce che, salvi i margini di attuazione sussidiaria sopra enunciati, gli organi regionali (e in parte “provinciali”) ridivengono organi decentrati dell’amministrazione centrale, onde si dovrebbe procedere ad accorpamenti con gli eventuali coesistenti organi decentrati dello Stato di corrispondente livello (laddove ancora esistenti), provvedendo a unificare nei ruoli statali, di volta in volta coerenti e razionali, il personale accorpato.
In relazione a ciò, si ristabilirebbero contingenti numerici che evitino duplicazioni e “sovra numeri”; mentre verrebbero meno, le carenze di personale dotato delle necessarie competenze nelle varie linee di attività nei vari livelli territoriali “ristatalizzati”: ma con semplificazioni di ruoli, profili e livelli e relativa contrattazione di comparti complessivi. Come conseguenza, sarebbero comunque grandemente agevolate le opportune procedure di mobilità intese a razionalizzare la distribuzione del personale stesso su basi nazionali.
In tal senso, occorre verificare la recuperabilità della legislazione preesistente alle riforme regionali degli anni 1970-1977-1978, adeguandole alle nuove esigenze proposte dall’evoluzione tecnologico-economica, demografica e sociale intervenuta a partire da quegli anni.
11- UN SISTEMA DELLE FONTI NORMATIVE SEMPLIFICATO E RAZIONALIZZATO
Riassuntivamente, il sistema delle fonti, nei rapporti Stato-autonomie locali, sarebbe così riformulato:
a) nelle materie di competenza non esclusiva dello Stato (quali sopra ipotizzate), cioè nelle ipotesi in cuile norme di legge nazionali, e le eventuali fonti regolamentari statali di loro attuazione, siano ritenute non poter pervenire efficientemente all’intera disciplina autoapplicativa, (caso in cui agli organi regionali sarebbero sostanzialmente lasciati solo i provvedimenti “pianificatori” e di “piano”), la regione avrebbe una potestà regolamentare assistita da un “riserva” costituzionale di competenza attuativa che:
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ne garantisce la resistenza alle fonti regolamentari statali (eventualmente) confliggenti nelle stesse materie;
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riconduce il sindacato di conformità costituzionale delle norme regolamentari rispettivamente statali e regionali, (sempre in tali materie), alla competenza giurisdizionale del giudice amministrativo, alleggerendo in modo incisivo il contenzioso attuale presso la Corte costituzionale (con maggior conseguente rapidità di quello restante).
b)nelle materie di competenza esclusiva dello Stato la disciplina regolamentare regionale assume carattere “eventuale” e “delegato” cioè sempre attuativo subordinato, o meramente esecutivo, di aspetti che possono o meno essere compiutamente regolati dalla disciplina statale (che a livello legislativo dovrà aver comunque previsto l’eventuale emanazione di regolamenti regionali attuativi di quelli statali, cioè adottabili in quanto previsti).
La flessibilità di politiche legislative che deriva da un sistema del genere è evidente: non solo la ricognizione delle disciplina applicabile diviene estremamente più semplice, ma la stessa quantità di norme disciplinanti ciascuna materia si riduce notevolmente. Infatti, la stessa attuazione di siffatto sistema, darebbe luogo a una serie di abrogazioni a cascata di fonti regionali e sub-regionali, via via che la disciplina di ciascun settore viene ridelineata in attuazione di un indirizzo politico che ha ritrovato la sua unitarietà.
Questo consente inoltre di procedere sia alla attuazione-recepimento delle direttive UE in modo molto più rapido e razionale, sia di poter effettuare semplificazioni e codificazioni normative in modo molto più praticabile ed esauriente.
La stessa iniziativa legislativa e normativa del governo ne risulta potenziata; e ciò, oltretutto, in modo tale da garantire la più celere ed efficiente realizzazione dell’indirizzo politico e in modo da restituire a dimensioni di fisiologica dialettica e chiarezza il rapporto Governo-Parlamento.
In particolare, quest’ultimo diverrebbe tendenzialmente il luogo di confluenza delle istanze di interesse territoriale in modo da controllare, democraticamente e in modo concentrato, la sintesi che il governo avrà cercato di ricomporre, nel formulare norme unificatrici di obiettivi e politiche nascenti dalla considerazione di un interesse nazionale articolato e pluralista, ma non soggetto a riframmentazione “a valle” del processo legislativo.
1 La esposizione del punto è tratta dall’articolo “I TAGLI AI COSTI DELLA POLITICA. UN APPROCCIO RADICALE DI REVISIONE COSTITUZIONALE”, parte I, di Luciano Barra Caracciolo, in www.giustamm.it, 2012.