L’anatocismo bancario è una sorta di mostro giuridico la cui storia ed evoluzione ha pesantemente inciso sull’economia nazionale determinando un costante esproprio di ricchezza in favore degli istituti di credito.
In questa sede si vogliono illustrare molto brevemente le possibili difese del consumatore sul tema, tentando di essere il meno tecnici possibile. Per ogni chiarimento è comunque sempre utile proporre quesiti anche tramite i commenti al presente articolo.
Preliminarmente tuttavia mi preme, come di consueto, portare all’attenzione del lettore una breve analisi di carattere costituzionale.
L’anatocismo banalmente è l’interesse che si paga sull’interesse stesso.
Il mutuo invece è il contratto con cui una parte consegna all’altra una somma di denaro a fronte di un corrispettivo, appunto costituito dagli interessi.
Appare chiaro che detti interessi debbano essere conteggiati in forza della somma effettivamente erogata in un rapporto di stampo sinallagmatico (ovvero a prestazione corrisponde controprestazione).
In tale costrutto si inserisce la stortura giuridica dell’anatocismo. Benché il consumatore abbia ricevuto una somma determinata e dunque il corrispettivo sia pacificamente ed unicamente il saggio d’interesse sull’importo effettivamente erogato, gli istituti bancari hanno allungato le mani su ulteriori somme inventando la cd. capitalizzazione degli interessi.
Detta capitalizzazione non ha alcun riscontro sinallagmatico ed è radicalmente priva di causa giustificatrice posto che con l’anatocismo si pagano interessi su somme mai erogate.
Ma allora dove nasce il problema? Si dovrebbe parlare senza tema di smentita di nullità della clausola anatocistica per mancanza di causa ex art. 1418 c.c.
Il problema purtroppo nasce dal fatto che la “moda” di un legislatore che ama fare favori alle banche non è affatto novità degli ultimi anni ma ha precisi precedenti storici. Fin dalla stesura originaria del Codice Civile del 1942, è infatti presente l’art. 1283 c.c. che dispone: “In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per l’effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”.
Chiaro che la locuzione “in mancanza di usi contrari” ha lasciato una straordinaria porta aperta alle banche. Porta che l’ABI fin dal 1952 ha immediatamente sfruttato disponendo l’applicazione dell’anatocismo per tramite di norme bancarie uniformi unilateralmente predisposte.
Posto che la giurisprudenza, dagli anni novanta, ha poi dichiarato con costanza la non applicazione di tale norme bancarie in quanto non definibili quali veri e propri usi normativi (così abolendo di fatto l’anatocismo), il legislatore è ancora una volta andato in soccorso degli istituti di credito per tramite il d.lgs. 4 agosto 1999 n. 223 con il quale è stata introdotta quella che fino a poco tempo fa era la formulazione vigente dell’art. 120 T.U.B. comma secondo: “Il CICR (comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) stabilisce modalità e criteri per la produzione degli interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazione di conto corrente, sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori”.
Con detta norma è stata formalmente codificata la legittimità di un’obbligazione contrattuale priva di causa giustificatrice, caso unico nell’ordinamento.
Il legislatore dunque ha imposto una prestazione patrimoniale priva di causa giustificatrice ex lege direttamente in favore del contraente “forte” nell’ambito di un rapporto contrattuale con conseguente riflesso immediato sul principio costituzionalmente tutelato dell’inderogabile solidarietà economica, politica e sociale di cui all’art. 2 Cost.
Trattasi altresì di norma che incide sul diritto di uguaglianza anch’esso costituzionalmente tutelato, posto che da un irragionevole vantaggio in favore di una parte contrattuale, addirittura quella più forte.
Il tutto senza considerare che il demandare al CICR l’imposizione di una prestazione patrimoniale priva di causa contrattuale costituisce una più che potenziale violazione dell’art. 23 Cost. che dispone che una prestazione patrimoniale non può essere imposta se non in forza di legge (cd. principio della riserva di legge), punto mai sfiorato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale neppure con la nota sentenza n. 341/2007.
Ferma la riserva di legge assoluta in tema di prescrizioni patrimoniali non si vede come il CICR possa legiferare validamente sul tema.
Ci saranno comunque ulteriori occasioni per approfondire compiutamente il rapporto tra Costituzione ed anatocismo e sviluppare quanto sopra esposto. Nel proseguo dell’articolo si esaminerà unicamente quella che è la disciplina vigente o di fatto “quasi vigente”, vista in particolare la riforma normativa della finanziaria 2013 che aveva modificato la norma abolendo finalmente l’anatocismo a decorrere dal 1 gennaio 2014 ed il successivo decreto legge “competitività” che davvero singolarmente lo ha reintrodotto nella previgente formulazione.
Viene da chiedersi se lo Stato abbia prontamente voluto rimediare a tale favore al consumatore in quanto, turbato per aver redatto la prima norma contro il sistema bancario della sua storia, abbia avuto timore di essere tacciato quale populista, una parolaccia che oggi fa molto paura.
Dunque il riferimento normativo che più interessa in merito all’anatocismo resta quello in vigore fino al 31 dicembre 2013 in quanto coinvolge la quasi totalità dei rapporti contesi ed, a questo punto, ad un passo dalla reintroduzione.
Sul punto occorre dunque esaminare la delibera che il CICR ha emesso proprio sulla scorta della delega dell’art. 120 T.U.B. comma secondo, delega come già detto in fortissimo odore di illegittimità costituzionale per violazione del principio della riserva di legge.
Il CICR, in ogni caso, ha posto precisi limiti all’applicazione dell’anatocismo e ciò con particolare riferimento alla trasparenza in favore del consumatore, vero punto nodale di qualsivoglia processo in materia.
L’art. 6 della deliberazione 9 febbraio 2000 CICR statuisce che: “i contratti relativi alle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito stipulati (omissis…) indicano la periodicità della capitalizzazione degli interessi ed il tasso d’interesse applicato. Nei casi in cui viene prevista una capitalizzazione infrannuale viene inoltre indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione. Le clausole relative alla capitalizzazione degli interessi non hanno effetto se non sono specificatamente approvate per iscritto”.
Orbene è pacifico che sono ben pochi (ve ne sono?) i rapporti di credito bancario o di conto corrente nei quali il tasso effettivo globale (TAEG) enunciato tiene davvero conto della capitalizzazione degli interessi ed ancora meno sono quelli in cui la capitalizzazione è espressamente e specificatamente approvata in forma scritta, requisito che peraltro deve ricorrere anche laddove la pattuizione anatocistica sia anche pari o superiore al termine temporale di un anno.
La conseguenza della violazione di tali principi comporta il diritto per il consumatore di non versare alcunché a titolo di capitalizzazione degli interessi con conseguente notevole riduzione del totale dovuto in favore degli istituti di credito. Nello specifico settore dei rapporti di conto corrente è poi richiesto l’ulteriore requisito della presenza di una medesima forma di capitalizzazione degli interessi anche in favore del correntista laddove lo stesso vanti un credito. Davvero una forma di rispetto del principio d’uguaglianza che suona beffarda ed ironica visto che, come noto, i tassi debitori in favore delle banche sono enormemente maggiori di quelli creditori dovuti in favore dei correntisti, che spesso sono prossimi allo zero quando non completamente erosi dai costi dello stesso rapporto di conto corrente.
Un ultimo cenno di nota merita il riferimento al termine di prescrizione dell’azione che decorre dalla conclusione del singolo rapporto ed ha durata decennale.