Direttamente dalle bozze in preparazione del mio nuovo libro, “Stati Uniti d’Europa, morte di una Repubblica”, pubblico questo articolo che spero sia uno spunto di riflessione, anche per comprendere la mia posizione duramente critica verso un governo che ha abbandonato ogni velleità di uscita dall’euro, ipotesi contemplata oggi solo in caso di eventi esterni che facciano crollare la moneta unica, eventi di cui in realtà non vi è traccia alcuna.
Buona lettura.
Esiste una precondizione indispensabile ed irrinunciabile per portare l’Italia fuori dalla situazione di apnea economica in cui versa, situazione che inevitabilmente ci porterà a cedere ulteriore sovranità ed accettare, nostro malgrado, la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Tale evento rappresenterà il raggiungimento dell’obiettivo che gli ambienti deviati del potere economico si sono da tempo prefissati al fine di scongiurare ogni possibile rigurgito democratico in Europa, rigurgito che vedono come una minaccia in quanto potrebbe limitarne il potere.
Solo attuando la precondizione dell’euroexit sarà possibile tornare alla piena attuazione del modello socio economico fatto proprio dalla Costituzione Repubblicana del 1948, che poi significa, in parole povere, restituire dignità e consapevolezza a tutto il popolo italiano.
L’euro è uno strumento di coercizione che da ormai quasi vent’anni condiziona le nostre esistenze ed il solo modo per ripartire è liberarsene immediatamente. Parlo di precondizione infatti perché, va ribadito per l’ennesima volta, dentro l’euro è impossibile l’adozione di qualsivoglia provvedimento legislativo che possa invertire la rotta rispetto al pilota automatico che Bruxelles ha inserito a nome e per conto delle élite finanziarie internazionali che rappresenta. Le norme giuridiche hanno reso eterna l’austerità e non esistono scorciatoie per liberarsene, tantomeno è possibile o ipotizzabile aprire una trattativa con i nostri carcerieri.
Infatti come sappiamo in caso di mancato rispetto delle regole BCE è in grado di far saltare letteralmente il banco in pochi giorni chiudendo la liquidità a qualsivoglia paese dell’eurozona. Se la liquidità viene chiusa si ha una tremenda conseguenza diretta: diventa impossibile, da parte dello Stato, addirittura il pagamento di stipendi, pensioni e di quanto necessario per il funzionamento dei servizi pubblici essenziali. Senza ottenere liquidità dai mercati, attraverso lo strumento della vendita di titoli di Stato, l’Italia avrebbe un immediato problema di cassa e l’afflusso di tale liquidità dipende dalle politiche della Banca Centrale che decidendo di non comprare i titoli eventualmente rimasti invenduti può metterci in ginocchio in pochi giorni.
Tale azione, come abbiamo visto, è stata paventata contro l’Italia, come una minaccia di stampo mafioso ed in modo eclatante, sia nei giorni dell’avvento del Governo Monti, sia al momento dell’inserimento del pareggio in bilancio in Costituzione e ovviamente resta sul piatto in ogni situazione, ogni qualvolta, il Governo di turno, ventili misure potenzialmente espansive, anche solo per non veder evaporare il proprio consenso elettorale. Dal punto di vista strettamente giuridico, ogni legge che prevede nuove spese, deve indicare le relative coperture finanziarie, ciò peraltro era vero anche prima della nota riforma dell’art. 81 Cost. e dunque da prima dell’inserimento del pareggio in bilancio in Costituzione.
L’art. 81 Cost., ultimo comma, già nel 1948 disponeva:
“Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Tuttavia in precedenza tale dizione non era una follia come lo è oggi visto che era possibile ricorrere sia all’indebitamento, ovvero lo Stato poteva indicare che le coperture sarebbero state ottenute attraverso l’emissione di nuove obbligazioni alienate sui mercati o acquistate dalla nostra banca centrale, sia a nuove emissioni monetarie. L’ultimo episodio in tale logica e condivisibile direzione, fu l’emissione delle cinquecento lire cartacee volute da Aldo Moro. In sostanza non era obbligatorio trovare le coperture attraverso nuove tasse o tagli alla spesa, dunque era possibile fare politiche espansive, ovvero immettere nel sistema economico più moneta di quanta se ne fosse drenata attraverso la tassazione.
Oggi in particolare, in forza dei vincoli di bilancio imposti dai trattati europei e della normativa d’attuazione del pareggio in bilancio (Legge n. 243/12), che esclude che lo Stato possa finanziarsi senza ricorrere ai mercati, e dunque battendo moneta, qualsivoglia politica espansiva è impossibile. Governo e Parlamento possono dunque portare avanti unicamente una sorta di gioco delle tre carte. Vuoi ad esempio evitare l’aumento dell’IVA o ridurre le accise sui carburanti? Benissimo prima devi verificare il costo economico di tale scelta e reperire le risorse attraverso una nuova tassa o tagli alla spesa. Lo stesso dicasi se si volesse introdurre una “flat tax”, il calo di entrate andrebbe compensato immediatamente con altre entrate o tagli alla spesa.
Rimanendo nell’euro dunque il Paese non può migliorare in alcun modo la sua situazione ed anzi, l’inevitabile processo di contrazione della produzione industriale dovuto alla riduzione della domanda interna e il crollo del settore manifatturiero continueranno, rendendo giorno dopo giorno più complessa l’uscita dall’euro. In parole povere uscire dall’euro, anche solo un paio di anni fa, sarebbe stato più facile di quanto lo sia oggi, appunto perché nel frattempo continuiamo a perdere produzione. Mentre la moneta è uno strumento alternativo al baratto per scambiare beni e servizi, dunque è un’invenzione umana del tutto virtuale e sostituibile con qualsiasi altra convenzione, la produzione è invece un fatto reale.
Avere o meno da mangiare non dipende dal denaro ma dal fatto che qualcuno abbia lavorato per portare quel cibo sulla nostra tavola, un concetto di un’ovvietà disarmante, ma in tempi di follia collettiva, ampiamente dimenticato. Pertanto ogni giorno in cui un Governo ci trattiene in questa gabbia, oltre che commettere un grave fatto illecito, costituisce un riduzione della possibilità di liberarci in futuro e in ogni caso aumenterà la durata del periodo di sofferenza, assestamento e transizione che conseguirebbe all’exit. Rimanendo nell’euro non è neppure possibile prendere tempo per preparare un’efficace strategia d’uscita. Nulla può essere fatto nel mentre per recuperare produzione o per tentare di ridurre la dipendenza economica dell’Italia da altri Paesi, sempre perché appunto, non è possibile fare interventi di spesa pubblica atti a mettere insieme un piano industriale che renda più semplice l’exit.
In sostanza solo attuata l’uscita si potrà iniziare a lavorare, prima è impossibile.
A quel punto gli scenari potenziali saranno sostanzialmente due e si dovrà lavorare prevalentemente a vista. L’abbandono della zona euro dell’Italia potrebbe causare il crollo della zona euro stessa, questo sarebbe lo scenario migliore poiché il nostro Paese conserverebbe la possibilità di commerciare liberamente con l’estero per ciò di cui abbiamo bisogno nell’immediatezza. In questa ipotesi la ripresa economica sarebbe sostanzialmente coincidente con il momento dell’uscita dall’euro e non vi sarebbero scossoni di sorta.
Ma c’è anche l’ipotesi peggiore, assolutamente possibile e che anzi io purtroppo ritengo più realistica, ovvero quella che l’UE non crolli affatto con l’uscita dell’Italia. La banca centrale europea infatti è assolutamente in grado di gestire anche una simile tempesta. La banca centrale, l’ho detto e ridetto, crea moneta dal nulla senza alcun limite quantitativo e dunque può attuare tutti i provvedimenti che rendano possibile per gli altri Stati rimanere nell’euro. Senza contare che sostanzialmente tutti i governi europei sono, chi più, chi meno, condizionati dal potere economico, che spesso ha addirittura determinato l’ascesa di un leader politico al posto di un altro e gestito l’alternanza tra maggioranza ed opposizione infiltrando entrambe. Pertanto non è assolutamente certo che nel momento di difficoltà determinanti governanti strettamente legati ad ambienti finanziari di stampo eversivo decidano di tutelare gli interessi del proprio popolo anziché quelli dei mercati.
Ecco che se si verificasse l’ipotesi peggiore, il motto per l’euroexit dovrà appunto essere “sperare nel meglio, ma prepararsi al peggio”, l’Italia dovrà sopravvivere con le proprie gambe dovendo rapidamente puntare, attraverso un massiccio piano industriale di ampie nazionalizzazioni, ad una sostanziale autarchia economica. Tale piano industriale dovrebbe essere nel cassetto delle forze politiche già da tempo, non averlo fatto sarebbe assolutamente da folli irresponsabili, ma è pacifico che esso non può essere minimamente implementato dentro l’euro, neppure a livello embrionale.
Peraltro anche se non si verificasse lo scenario peggiore, vuoi perché l’UE appunto collasserà, vuoi perché troveremo altri patners commerciali attraverso nuovi accordi bilaterali, l’Italia dovrà comunque, per sicurezza nazionale, fare in modo di non dipendere più in alcun modo, nel prossimo futuro, dalle importazioni in settori vitali per la sopravvivenza dello Stato stesso e dunque in definitiva della sua popolazione. Uno Stato che dipende da altri in tali aspetti è inevitabilmente dipendente, ricattabile ed in definitiva non è sovrano. I settori di interesse nazionale, che determinano la stessa sopravvivenza del paese e dunque in cui l’autarchia potenziale deve essere al 100% sono i comparti: alimentare, sanitario ed energetico.
Dobbiamo altresì essere in grado di costruirci in autonomia le nostre infrastrutture, ma questo è già oggi realtà per fortuna. In tali settori quindi l’autarchia, appunto quantomeno potenziale, dovrà essere cosa fatta, senza se e senza ma, nel minor numero di anni possibili. Le politiche attualmente in corso sono opposte ed ovviamente sono politiche imposte da Bruxelles e dal dogma della libera circolazione delle merci e delle persone, della libertà di stabilimento, tutti concetti trasformati in norme giuridiche nei trattati europei e che avevano al centro proprio l’evaporazione delle sovranità nazionali attraverso la forzata interdipendenza economica in aspetti essenziali per la vita.
In sostanza se l’Italia un domani importerà beni voluttuari, nulla quaestio. Come sappiamo in questi casi, se un Paese subisse danni dall’invasione di un prodotto straniero potrebbe, qualora necessario, per tutelare interessi superiori (in particolare l’occupazione ovviamente), introdurre dazi per renderlo meno appetibile. Vogliamo un prodotto particolare francese ma la diffusione di tale prodotto in modo capillare danneggerebbe i nostri lavoratori? Bene i cittadini saranno liberissimi di comprarlo, ma solo pagandolo molto di più di tutti i prodotti locali, questo ne limiterà inevitabilmente la diffusione evitando danni alle imprese autoctone. Ma tale libertà economica non può mai essere tollerata dove c’è in gioco la sopravvivenza stessa della nazione. Senza cibo, senza energia o senza farmaci, si muore. Senza l’Audi o l’Iphone no e non è detto che la felicità complessiva della popolazione ne risenta.
Ovviamente l’impostazione autarchica dovrà determinare anche la fine delle politiche volte alla massiccia esportazione dei nostri prodotti all’estero. Non possiamo pensare di diventare indipendenti e poi pretendere che i vicini ci lascino esportare tutto senza reagire, questa linea di condotta fallimentare porta al conflitto tanto quanto lo portano le politiche mercantiliste oggi in essere. Nel nuovo assetto socio economico, assetto costituzionalmente orientato, i consumatori delle nostre imprese dovranno essere i cittadini italiani, grazie alla loro ritrovata capacità di spesa.
Chi continua a vedere male l’autarchia può forse essere convinto attraverso questo ulteriore ragionamento. Il favore all’interdipendenza economica si basa sull’assunto, fallace, che essa, rendendo uno Stato dipendente dal vicino, lo si obblighi all’integrazione. Quando tutti saranno fortemente integrati la pace sarà garantita o addirittura confluiranno in un solo Stato, che poi è ciò che sta accadendo oggi in Europa. In realtà l’attuale schema non vede gli Stati collaborare in un’ottica solidale e di reciproco interesse ma si basa, sempre per norma, sulla “forte competitività”. Ovvero l’interdipendenza viene così spinta al punto, attraverso l’imposizione di politiche di austerità, che l’unico modo che ha una nazione di sopravvivere, diventa quello di forzare la vendita dei propri prodotti all’estero, condizione che richiede in primis un prezzo conveniente, estremamente conveniente, specialmente laddove anche il tuo vicino applica politiche di austerità.
La sola cosa che rende i prezzi più competitivi è purtroppo la contrazione dell’occupazione, sia in termini salari, sia in termini di numero assoluto di occupati, che avviene sempre più spesso attraverso l’automatizzazione della produzione. Avete per caso visto nei “fast food” spuntare colonnine automatizzate per le ordinazioni che sostituiscono gli addetti? Bene è uno degli esempi di ciò che vi sto raccontando. A stipendi più bassi corrisponde poi un crollo della domanda interna, ma la maggiore appetibilità dei tuoi prodotti sui mercati esteri. Il Paese che si inizia a rifornire di un tuo prodotto vedrà però le imprese autoctone, che facevano la stessa cosa, soffrire e subirà una perdita di posti di lavoro che lo spingerà, in una logica di libero mercato, a suo volta ad abbattere i prezzi per riacquisire le posizioni di competitività perdute.
Mario Monti ve lo ricordate nella storica intervista alla CNN al tempo in cui era al Governo: “stiamo distruggendo la domanda interna per acquisire posizione di maggiore competitività”. In questo schema di sacrificio collettivo della domanda interna è dunque evidente che la competizione sulle esportazioni porta verso un conflitto tra Stati e non verso la pace. Se ciascuno producesse prevalentemente per i suoi cittadini non si verificherebbe invece alcun conflitto. Limitando gli scambi a ciò che davvero risulta indispensabile, oppure estremamente attraente in quanto magari innovativo, e contemporaneamente aumentando il potere d’acquisto interno dei tuoi cittadini la pace è assolutamente garantita. La sola forma di integrazione astrattamente possibile è quella che si ottiene con il benessere. Dunque se anche l’integrazione dovesse essere considerata un valore a prescindere, essa si potrà attuare solo con politiche espansive di potenziamento della domanda interna e non di competizione al ribasso sull’export.
Peraltro neppure in un mondo in cui esistesse un solo Governo centrale si attuerebbero politiche mercantiliste. La produzione, anche meramente per un fatto logistico, sarebbe sempre posta vicino, o comunque il più vicino possibile, al luogo di consumo, poiché i trasferimenti di merci e materiali sarebbero semplicemente uno spreco inutile di risorse reali e sarebbero limitati al solo trasporto di alcune materie prime che magari non sono distribuite equamente su tutto il pianeta (anche se pure questo aspetto ormai sta mutando in forza delle nuove tecnologie, sia estrattive che produttive). Così anche in un mondo così accentrato i cittadini non migrerebbero da regione a regione in cerca di un lavoro, ma resterebbero nelle proprie zone di origine, azione che porterebbe ulteriore benessere e felicità, dato che non obbliga a spezzare i legami affettivi che si creano nel tempo nei luoghi in cui si nasce e si cresce.
In questo contesto l’interdipendenza economica tra regione e regione, anche dinnanzi ad un governo unico mondiale, sarebbe assai limitata e assolutamente residuale. Dunque a maggior ragione l’Italia non può rinunciare alla precondizione necessaria a mettere fine alla crisi, appunto l’euroexit, per paura delle scelte autarchiche che in conseguenza dovrà prendere, perché la riconversione del proprio tessuto produttivo in funzione delle esigenze del territorio che si deve soddisfare, è un’ovvia caratteristica di ogni civilizzazione e sarebbe appunto esistente anche se vi fosse un governo mondiale.
Ma appunto la produzione non potrà mai essere impostata e localizzata correttamente finché resteremo schiavi di una moneta che non possiamo emettere. Da qui avrete anche capito il mio atteggiamento fortemente critico verso l’attuale governo giallo/verde. Chi non ha intenzione di uscire dall’euro immediatamente è infatti non solo inutile al Paese, ma è profondamente dannoso.
Avv. Marco Mori, CasaPound Italia, autore de “Il Tramonto della democrazia, analisi giuridica della genesi di una dittatura europea”, disponibile on line su ibs.
[…] da Worren Mosler – che potrebbero accompagnarla senza traumi e progressivamente fuori dalle follie contabili dell’euro. Soluzioni che ravvivino la domanda interna e risollevino l’economia. Tuttavia, il primissimo […]
Buongiorno Mori, ho letto il tuo articolo e mi ha lasciato vari dubbi. Poiché tratta un argomento di cui sto discutendo su FB da tempo, ho postato anche su FB le stesse domande a te rivolte. Se ti interessasse un incontro, sono spesso a Genova per motivi di lavoro e potremmo discuterne di persona. Cordiali saluti.
ANCHE MARCO MORI DI CASAPOUND, CHIEDE L’USCITA DALL’EURO E DICHIARA CHE AVVERREBBE “SENZA SCOSSONI DI SORTA”. (vedi articolo di Mori allegato). Vista la convinzione di Mori, chiedo anche a lui come ai suoi colleghi di Casapound di chiarire almeno tre punti sull’uscita dall’Euro: 1) I titoli del Debito pubblico, Mori li ridenominerebbe con la Nuova Lira o li lascerebbe in Euro ??? 2) In che valuta Mori vorrebbe acquistare le materie prime necessarie all’industria italiana, il petrolio per le auto e il gas per il riscaldamento ??? 3) Con l’uscita dall’Euro, Mori chiuderebbe gli sportelli bancari o lascerebbe i cittadini liberi di prelevare gli Euro depositati, come successe in Grecia ??? Ci sarebbero molte altre domande di carattere economico un po’ più sofisticate, ma basta che Mori risponda gentilmente alle tre che ho già sottoposto a Casapound, alle quali nessuno ha saputo o potuto rispondere. Aggiungo di conoscere bene il piano di Savona per un’eventuale uscita dall’Euro e dire che è pieno zeppo di scossoni, è il minimo. (Carlo Maria Persano)
Da più parti ( es. Becchi, mov. roosvelt etc..)si sta parlando di CONFEDERAZIONE EUROPEA . Cosa ne pensa l’avv. Mori?
Che dobbiamo tornare indipendenti e sovrani. Nessuna confederazione, che significherebbe rimanere anche nell’euro.
Cosa pensate dell’idea di alcuni economisti di creare una moneta parallela all’euro, per uso interno?
Il piano industriale, vero punto centrale e pietra angolare dell’intera questione, viene sempre citato in maniera estremamente vaga.
Nelle (pur meritorie) conferenze di Marco Mori o nei suoi scritti si dice solo che si uniranno le menti della Nazione e si provvederà a redigerlo.
Mi sembra davvero poco; per quale motivo partiti che hanno il recesso o Italexit che dir si voglia quale obiettivo preliminare a tutto il resto, partiti come Casa Pound, il Fronte Sovranista Italiano e altri, non provvedono QUI E ORA a cercare di radunare alcuni di quegli eccellenti cervelli, per poi tentare di abbozzare CONCRETAMENTE una prima stesura di piano industriale?
Altrimenti si rimane nell’astratto, sul piano meramente qualitativo… mentre, lo si riconoscerà, qui la faccenda è quasi esclusivamente quantitativa.
Cercherò di stampare e affiggere o imbucare questo estratto in quante più cassette e condomini possibili.