– di Marco Mori e Luigi Pecchioli –
Scivolata clamorosa, davvero clamorosa, quella della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 25201/16, è intervenuta in merito alle ragioni per le quali è lecito procedere con un licenziamento di un dipendente per giustificato motivo oggettivo.
La Corte, aderendo ad un precedente orientamento, per la verità largamente minoritario, ha ritenuto che sia possibile per un imprenditore licenziare per aumentare il proprio margine di profitto, e ciò è stato affermato attraverso l’invocazione del principio della libertà d’iniziativa privata, senza frapporre ad essa alcun altro “paletto”.
Qual è il vizio logico che rende questa sentenza, pur apparentemente ben motivata (clicca qui per leggerla), completamente insostenibile?
È molto semplice. Le pagine della motivazione si possono smontare in pochissime righe, perché sono completamente prive di logicità, dimenticando anche norme di diritto costituzionale che dovevano essere considerate.
Se si potesse licenziare, solo per avere più profitto, la conseguenza sarebbe nei fatti semplice: ogni licenziamento diventerebbe lecito ed insindacabile.
In sostanza si cancellerebbe ogni residua tutela per i lavoratori. Ciò avverrebbe in favore, non tanto delle piccole medie imprese, ma soprattutto delle grandi lobby, che certamente non si lasciano mai vincolare dal fattore umano nelle scelte del personale.
Un piccolo imprenditore, infatti, anche per ovvie ragioni morali, difficilmente manderebbe a casa un padre di famiglia, solo per avere qualche soldo in più per i propri sfizi. Le persone che si comporterebbero così sono, ancora oggi, fortunatamente poche.
Inoltre la caratteristica del lavoratore di una piccola/media impresa è quella di essere specializzato, ovvero di aver acquisito un know how specifico che lo rende anche molto prezioso e non facilmente sostituibile, a differenza di un lavoratore di una grande impresa, che sovente esegue compiti di routine, e quindi risulta più facilmente rimpiazzabile. Anche per questo l’imprenditore di una PMI non licenzia un proprio dipendente, se non è davvero costretto dalla crisi.
La sentenza è gravemente viziata oltretutto perché rende completamente automatico che, di fronte ad una spesa che si riduce, nel caso di specie il costo del monte stipendi, sia subito documentabile, sotto il profilo processuale, un aumento del margine di profitto.
Esso infatti diventa pacificamente, e senza nessuna ulteriore verifica, la mera conseguenza ad ogni taglio effettuato. Non potendo certo un Tribunale sospendere il giudizio per verificare, ex post, e dunque solo dopo anni dal licenziamento, se effettivamente il maggior profitto conseguente al licenziamento si sia o meno verificato.
Il semplice criterio della produttività per addetto, preso in considerazione implicitamente dalla Corte, che appunto banalmente aumenta se a parità di produzione si impiegano meno lavoratori, è quindi un criterio fallace (oltre che arbitrario), sia perché si dovrebbe dimostrare nel tempo il fatto che la produzione sia rimasta costante, sia perché renderebbe conseguentemente (e naturalmente) lecito lo sfruttamento dei lavoratori residui, con buona pace dei loro diritti, secondo una logica spiccatamente neoliberista diametralmente opposta al dettato costituzionale.
Il risparmio dello stipendio del dipendente licenziato diventa così, in ogni caso, giustificato motivo di licenziamento, in una sorta di demenziale automatismo legato all’unico dato oggettivo subito dimostrabile, appunto il taglio del costo del lavoro.
Siamo davvero fuori strada, perché così ragionando la stessa tutela prevista per questa tipologia di licenziamento (ma se il datore si fa furbo il discorso vale per tutti i licenziamenti) diventerebbe definitivamente lettera morta, con buona pace del diritto al lavoro, che è certamente sovraordinato a quello del profitto dell’azienda.
Anzi, e qui diremo una cosa controcorrente a causa della folle ideologia dominante, il diritto al maggior profitto possibile, ricordiamolo anche alla Cassazione, non trova alcuna tutela costituzionale.
L’iniziativa privata infatti è libera, ma non è libera la possibilità di accentrare su di sé qualsivoglia quantità di ricchezza, in quanto la legittima ricerca del profitto trova il limite dato dalla violazione dell’utilità sociale e dal possibile danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità dell’individuo, come previsto dall’art. 41 Cost.
A ciò si aggiunge la fondamentale funzione sociale della proprietà e dell’obbligo, imposto alla Repubblica, di renderla accessibile a tutti, obbligo previsto precisamente dall’art. 42 Cost. Quindi i grandi accentramenti di capitale, possibili attraverso sempre maggior profitto, sono addirittura vietati dalla Costituzione. La Cassazione deve aver perso per strada anche questa norma.
Senza dimenticare poi, anzi in effetti lo hanno proprio dimenticato, che esiste anche un principio, addirittura fondamentale della Carta, che impone a tutti gli inderogabili doveri di solidarietà, politica, economica e sociale (art. 2 Cost.).
Privare una persona di un reddito, per mero egoismo legato ad un maggior guadagno personale, per di più quando quel guadagno era già proporzionale alla quantità ed alla qualità del lavoro dell’imprenditore ed in ogni caso sufficiente per dare ad esso ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, è certamente e clamorosamente contrario all’art. 2 Cost.
In attesa che le Sezioni Unite rimedino a questa sciocchezza, rammentiamo che deve continuare a considerarsi valido l’orientamento largamente maggioritario della stessa Cassazione, e dunque dotato di pari dignità e valore, che al contrario ribadisce ciò che sosteniamo noi, ovvero che: “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comprende l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato, non semplicemente per un aumento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario” (Cass. lav. 903/83 fino alla più recenti 5173/15, ma se ne potrebbero citare a decine).
Avv.ti Marco Mori e Luigi Pecchioli – Riscossa Italia, autori di “Il tramonto della democrazia” e “La Costituzione economica” entrambi disponili on line su ibs.