Fin dalla premessa del disegno di legge sulla lotta alle “fake news” è evidente quale sia la matrice e chi siano i mandanti di questo tentativo di spaventare coloro che, come noi, portano avanti posizioni incompatibili con quelle governative e dunque in definitiva incompatibili con le politiche dell’Unione Europea.
Non a caso questo è un provvedimento fortemente richiesto dall’UE, benché falsamente ci si mascheri dietro quel diverso organismo che è l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il quale è intervenuto sull’argomento con la recente risoluzione n. 2143 del 25 gennaio 2017.
Sappiamo bene che, come ha anche dimostrato l’esito del referendum costituzionale, la campagna contraria all’agenda economico-sociale dell’Unione sta dando i suoi frutti e pertanto essa, proprio come fa ogni dittatura, teme che l’afflusso di informazioni al popolo possa essere la causa della propria sconfitta e così prova a limitarlo.
Da qui una serie di dichiarazioni incrociate, anche dalle più alte ed asservitissime cariche del nostro Stato. Penso a Mattarella o alla Boldrini, che si sono spesi per indurre l’opinione pubblica (fuorviarla?) ad accettare l’idea che sia bene frenare la diffusione di false informazioni in rete. Si ragiona come se le persone fossero tutte prive di senso critico e che per tanto si facciano influenzare dal primo blogger che scrive due post. Questo la dice lunga anche sul livello di rispetto delle istituzioni nazionali ed europee, il minuscolo è voluto, verso il popolo.
Partendo dalla lettura della relazione allegata al DDL salta subito all’occhio il tentativo, per la verità assai maldestro, di spiegare, prima ancora che sia sorta qualsivoglia contestazione (excusatio non petita accusatio manifesta), il perché tale disegno di legge sarebbe legittimo sotto il profilo costituzionale e dunque rispettoso in particolare dell’art. 21 della nostra Carta.
Viene così tirata fuori dal cilindro una giurisprudenza direttamente dalla preistoria del nostro diritto, trattasi di una Cassazione del 1956, precisamente la n. 2445. Sentenza che viene indicata senza esplicitare se sia stata emessa da una sezione penale o da una civile e che non ho avuto modo di rinvenire neppure sulle banche dati professionali. Una sentenza dunque considerata irrilevante dai professionisti del settore giuridico. Comunque la cercherò e vi saprò dire…
Tale sentenza è stata indicata dagli ideatori del DDL benché la giurisprudenza in materia in realtà esista ed anzi la stessa Corte Costituzionale sia intervenuta sul dettato dell’art. 656 c.p., norma progenitrice in un certo qual modo di quella in esame. Va subito detto quindi che, anche sulla scorta degli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi, non è affatto vero che la proposta di legge sia integralmente conforme alla costituzione. In passato, benché formalmente non condivida pienamente la ratio di certi ragionamenti, la compressione dell’art. 21 Cost. e dunque della libertà di espressione è stata dichiarata possibile solo quando si è posta in essere un’azione idonea a ledere in astratto quel particolare interesse giuridico che è l’ordine pubblico.
Il vecchio ed ancora vigente, seppur depenalizzato come vedremo infra, art. 656 c.p. contemplava dunque un classico esempio di reato di pericolo, nel quale l’offensività della condotta, necessaria all’affermazione della penale responsabilità, doveva essere valutata in astratto. Quindi secondo la giurisprudenza una notizia falsa di per sé, ma che non potesse ledere, neppure in astratto, l’ordine pubblico o che non finisse con il diffamare una persona specifica, resterebbe un comportamento rientrante nella libertà di espressione che si estende anche alla possibilità di dire sciocchezze.
Ma andiamo con ordine nell’esame delle tre nuove fattispecie di reato che vorrebbero essere introdotte dal DDL. La prima è una mera contravvenzione che prevede l’ammenda fino a 5000 euro. Questo significa che la pena andrà da 20 euro a 5000, giusto il combinato dell’art. 26 c.p. Le altre due fattispecie sono invece delitti inseriti nell’ambito della lesione di quel particolare bene giuridico che è la personalità dello Stato e sono gli artt. 265 bis e 265 ter, che comminano rispettivamente la reclusione non inferiore nel minimo a 12 e 24 mesi oltre all’ammenda (si tratta di un errore terminologico poiché per i delitti si sarebbe dovuto inserire come tipologia di pena esclusivamente la multa).
La prima fattispecie, il nuovo 656 bis, norma che si applica esclusivamente a chi diffonde contenuti in rete, francamente non spaventa gran che dal punto di vista sanzionatorio. I promotori del DDL, oltre ad aver fatto confusione tra ammenda e multa, non si sono neppure ricordati che l’articolo 1 del D.lgs. n. 8 del 15 gennaio 2016 ha già depenalizzato i reati puniti con la sola ammenda e dunque ha depenalizzato la più grave fattispecie prevista dal già vigente art. 656 c.p., nella quale si prevede la punizione per la diffusione di notizie false esagerate o tendenziose non in quanto tali, come vorrebbe la nuova norma, ma solo qualora idonee a turbare l’ordine pubblico.
Dunque ferma l’incongruenza legislativa ci si troverebbe nella situazione di aver depenalizzato un fatto più grave per far diventare successivamente punibile un fatto più lieve, comportamento irragionevole e dunque censurabile davanti alla Corte Costituzionale.
Non solo, sotto il profilo costituzionale vi è un vizio ben più grave che rende la norma impresentabile e comunque inidonea a resistere alla sua prima applicazione pratica. Occorre infatti ricordare, come anticipato, che la stessa Corte Costituzionale aveva considerato legittimo l’attuale art. 656 c.p. unicamente perché si prevedeva l’avvenuta lesione, quantomeno potenziale, di un bene giuridico, appunto l’ordine pubblico.
Nella nuova fattispecie sanzionatoria tale aspetto manca, la diffusione di una notizia falsa, esagerata o tendenziosa diventa punibile a prescindere dall’offesa di un bene giuridico, ciò rende la norma radicalmente incostituzionale perché manca l’offesa. Con una norma simile, in sostanza, si punterebbe a punire chi, esclusivamente in rete, professi l’esercizio di un’opinione eterodossa.
Questo è in effetti il vero scopo di chi ha pensato la norma e per esserne certi basta tornare alla relazione preparatoria ove a pagina 1 si legge testualmente che si punta proprio a combattere “il pericolo di contaminare internet con notizie inesatte e infondate o, peggio ancora, con opinioni che seppur legittime rischiano di apparire più come fatti conclamati che come idee”. Assunto, questo sì, che contrariamente all’espressione del proprio pensiero, dovrebbe dare luogo all’apertura di un’indagine penale.
Visto l’art. 21 Cost., ripetiamolo, esiste la libertà costituzionale di dire anche sciocchezze e di esprimere opinioni errate o semplicemente minoritarie, l’unico limite all’espressione può essere la lesione di un bene immateriale protetto dall’ordinamento. Sul punto la giurisprudenza, anche costituzionale, formatasi attorno all’art. 656 c.p., poco applicato in verità nella nostra storia è come detto chiara.
La Corte Cost., ad esempio, con sentenza 14-29 dicembre 1972, n. 199, indirizzo poi riconfermato con sentenza n. 210 del 1976, ha dichiarato che: “È infondata la questione di costituzionalità dell’art. 656 cod. pen., che punisce il reato di pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico, in riferimento all’art. 21 Cost. (omissis…) e ciò in quanto il concetto di ordine pubblico esclude che il diritto di manifestare il proprio pensiero possa giustificare, in base a ideologie politiche, la lesione di qualche bene, la cui tutela rientra nel potere discrezionale del legislatore”.
Sulla scorta di tale visione, forse troppo generica nel consentire la limitazione dei diritti enunciati nell’art. 21 Cost. e che magari avrebbe dovuto essere meglio motivata dalla Consulta, la giurisprudenza di merito ha chiarito la differenza tra notizia ed opinione eterodossa, affermando che: “Il principio affermato dalla Corte costituzionale, secondo il quale l’espressione “notizie false, esagerate o tendenziose” impiegata nell’art. 656 c.p. è una forma di endiade con la quale il legislatore si è proposto di abbracciare ogni specie di notizie che, in qualche modo, rappresentino la realtà in modo alterato, è destinato a marcare una più netta distinzione tra le notizie e le opinioni: punibili, le prime, ove vengano presentate con notazioni di falsità e turbino concretamente l’ordine pubblico, pienamente lecite le seconde ancorché inesatte ed eterodosse”(Trib. Ravenna, 02/07/1974).
Questa è l’unica interpretazione conforme anche all’art. 2 Cost. che tutelando i diritti inviolabili dell’uomo certamente ricomprende anche il diritto di cui all’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che afferma “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni ed idee attraverso ogni mezzo”. Evidentemente tale assunto sfugge alla comprensione di Mattarella o della Boldrini e certamente sfugge ai promotori del DDL in esame, l’ignoranza è ormai un male davvero diffuso, su questo sono d’accordo anche io nell’esprimere preoccupazione.
Va ancora specificato, per completezza dell’esame giuridico, che la norma di cui si dibatte, essendo una contravvenzione, si potrà applicare anche per colpa e non solo per dolo. Infine va ricordato, sempre per completezza, che essa non si applicherà alla stampa ed ai giornalisti in generale, anche quando operino on line. Dunque è palese che la norma, in definitiva, risulta in sostanza solo un maldestro tentativo di imbrigliare la circolazione di opinioni indipendenti on line. Limitare l’attività sui social network e sui blog, i quali peraltro avranno obblighi di comunicazione al Tribunale dei dati dell’amministratore in forza dell’art. 3 dello stesso DDL.
L’esclusione dei professionisti dall’ambito di applicazione della fattispecie è ovviamente completamente irragionevole, visto che se si sceglie di punire un comportamento lo si dovrebbe fare, a maggior ragione, se esso è commesso da un professionista del settore piuttosto che da un cittadino comune. Il 656 bis in sintesi non preoccupa e ben difficilmente resisterà al vaglio della Corte Costituzionale.
Merita un esame più preoccupato invece l’art. 2 della riforma, quello che introduce i nuovi artt. 265 bis e 265 ter nel codice penale, norme che, attenzione, si applicheranno anche ai giornalisti ed alla stampa, sia dentro che fuori da internet. Norme dunque a contenuto generale e che prevedono delle pene assolutamente allarmanti.
La fattispecie pare rientrare, quantomeno in parte, nei limiti del solco costituzionale di cui ho detto sopra, in quanto evidenzia quali siano i tre beni tutelati facenti parte, in senso lato, del concetto di personalità giuridica dello Stato che si puntano a difendere: il pubblico interesse, evitare un pubblico allarme, evitare di fuorviare settori dell’opinione pubblica (come fanno spesso i nostri politicanti).
Il reato è ancora qualificabile come di mero pericolo, dunque basterà l’attitudine astratta di un’azione a ledere i tre beni immateriali suindicati per determinare la punizione dell’agente. Stavolta però occorrerà il dolo di volere scientemente pubblicare una notizia o una voce falsa, esagerata o tendenziosa lesiva dei beni suindicati. Trattandosi di un delitto la colpa non sarà quindi sufficiente all’attribuzione della penale responsabilità e ciò ai sensi e per gli effetti dell’art. 42 comma secondo c.p. “nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.
Chiunque, anche un giornalista quindi (ribadiamo che manca l’espressa esclusione), e con qualsiasi mezzo (non solo in rete) che diffonderà una notizia o una voce falsa, esagerata, tendenziosa e che possa destare pubblico allarme o creare nocumento agli interessi pubblici, ovvero fuorviare l’opinione pubblica, sarà punito con la reclusione non inferiore a dodici mesi e con l’ammenda (avrebbero dovuto parlare di multa in presenza di un delitto) fino a 5000 euro.
Indicare una pena non inferiore a dodici mesi significa che il limite massimo edittale sarà di 24 anni come da disposto del’art. 23 c.p. Avete capito bene, potenzialmente si rischiano 24 anni per la pubblicazione di una notizia falsa, esagerata o tendenziosa che leda i beni immateriali suindicati!
Questo limite edittale, palesemente irragionevole, rende la norma illegittima sotto il profilo costituzionale. La pena massima risulta abnorme anche in comparazione a ben più gravi delitti, si parla dunque di una violazione dell’art. 3 Cost. La Corte Cost. ha già chiarito più volte che la discrezionalità del legislatore nel fissare i limiti edittali di una pena si ferma laddove si sfocia nell’irragionevolezza. Bisogna poi rimarcare che l’art. 265 c.p., sotto il titolo “disfattismo politico”, puniva già una fattispecie quasi analoga a questa, ma lo faceva solo in tempo di guerra, mentre oggi questo avverrà anche in tempo di pace. Parlo di “quasi analogia” delle condotte atte a consumare il reato perché mancava e manca ancora oggi, dalla norma ispiratrice di quella del DDL, la punibilità della condotta diretta a fuorviare l’opinione pubblica.
Questa probabilmente è la maggior criticità costituzionale del nuovo 265 bis c.p. Fuorviare l’opinione pubblica non determina necessariamente una lesione di un interesse pubblico o la causazione di un pubblico allarme. Se ci riflettiamo tutti i partiti politici tentano ad esempio di fuorviare l’opinione pubblica, facendosi votare. Gli 80 euro di Renzi che cos’erano?
Vero che a livello linguistico fuorviare significa “mettere sulla falsa strada”, ma anche con un’interpretazione simile, che sarebbe peraltro solo un’inutile ripetizione della prima parte della norma, dove già si specifica che per la commissione del reato la notizia o la voce diffusa deve essere falsa, si sarebbe fuori dal novero della legittimità costituzionale. Infatti si punirebbe una falsa diffusione di notizie o di voci a prescindere dal fatto che esse violino l’interesse pubblico, destino pubblico allarme o, in generale, contrastino almeno con l’ordine pubblico. La libertà di espressione dell’art. 21 sarebbe dunque irragionevolmente compromessa.
Più grave, nei minimi, la pena del nuovo art. 265-ter dove il limite base è pari a due anni di reclusione, mentre il massimo resta fissato in 24 anni ex art. 23 c.p. Questa ulteriore nuova fattispecie mira a punire chi si rende responsabile, con qualsiasi mezzo di diffusione, di campagne d’odio contro individui o di campagne volte a minare il processo democratico e ciò anche a fini politici.
Sussiste anche qui l’errore per un delitto di usare il termine ammenda per la parte pecuniaria della sanzione, anziché quello di multa, ma questo è il meno.
A parte l’assurdo tetto massimo di pena di cui si è detto, i beni tutelati dalla norma sono infatti solo parzialmente compatibili con l’art. 21 Cost. Che il fatto di minare il processo democratico sia reato è indubbio e nei fatti esistevano già norme tra i delitti della personalità dello Stato che punivano la fattispecie, oltretutto sanzionate ben più gravemente. Non ci si riferisce all’esercizio di un’opinione ovviamente, ma al propagandare vere azioni eversive, questo è l’unico senso che può darsi alla norma.
Sono invece perplesso sul termine “campagne d’odio”, visto che non significa assolutamente nulla. Manca la necessaria tassatività della condotta, non si comprende esattamente cosa possa intendersi con tale espressione. Se si critica un politico arrestato per una tangente ad esempio si fa una campagna d’odio, che cosa differenzierà l’aspra critica o l’azione di denuncia da una campagna d’odio vera e propria?
Non si comprende cosa si voglia davvero colpire, manca anche un rilievo al fatto che la campagna d’odio, ammesso e non concesso che si comprenda cosa essa sia e con quali comportamenti possa realizzarsi, debba essere effettivamente ingiustificata. In realtà sappiamo bene, dalle dichiarazione a latere della legge, quale sarebbe lo scopo astratto della norma, fermare gli insulti verso politici di primo piano con una fattispecie che sia più dura, sotto il profilo sanzionatorio, della mera diffamazione. Il problema che con il termine campagne d’odio non si dice esattamente questo, non si qualifica con precisione i soli comportamenti di incitazione alla diffamazione reiterati nel tempo.
Questo è il ragionamento complessivo per quanto riguarda il freddo diritto. Sorge però a monte di tutto un problema, come si deciderà se una notizia o una voce sia vera o falsa? O ancor peggio, come si stabilirà se è esagerata o tendenziosa?
Sappiamo bene quante volte un pensiero, anche di parvenza scientifico, è stato poi smentito nel tempo fino ad essere completamente ribaltato. Una volta si sosteneva che la Terra fosse piatta, e questo era il pensiero dominante, eppure era falso. Parimenti oggi si dice, ad esempio, che il debito pubblico è un problema, quando lo è solo per chi è abissalmente ignorante. Capita di sovente che un’opinione spacciata per verità, anche maggioritaria, sia una clamorosa sciocchezza. Che faremo? Tenteremo di processarli tutti?
Al Sole 24 ore andranno tutti in galera? Daremo 20 anni di reclusione a Roberto Napoletano per i suoi articoli che invocano privatizzazioni di massa dei beni pubblici perché c’è il debito? Benché mi stia antipatico non sarei certo d’accordo che passi il resto della vita in carcere per avere detto semplicemente una serie di clamorose “cazzate”, passatemi il francesismo.
Certo la legge non dovrà applicarsi alle opinioni, malgrado il diverso pensiero che avevano i suoi ignoranti autori, altrimenti diverrebbe radicalmente incostituzionale. Ma come distingueremo in un articolo le notizie dalle opinioni? Come distingueremo una notizia esagerata o tendenziosa da una normale in base a criteri oggettivi?
Intaseremo i Tribunali, questo è certo. La battaglia euro sì, euro no, si trasferirà nelle aule di Giustizia.
Salvo che non si svolti definitivamente verso un regime vero e proprio, come vorrebbe l’UE, se la magistratura resterà indipendente, ne vedremo davvero delle belle e noi, al contrario di chi difende l’attuale sistema, siamo perfettamente in grado di provare facilmente e scientificamente, ad esempio, la relazione tra la crisi e l’euro… buona fortuna ai nostri nemici dunque, ne avranno bisogno.
Se poi finirà male e farò 20 anni di carcere semplicemente perché scrivo la verità in rete pazienza, anzi bene! Almeno avrò vitto e alloggio gratis alla faccia dei liberisti.
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Avv. Marco Mori – Riscossa Italia, autore de “Il tramonto della democrazia analisi giuridica della genesi di una dittatura europea” disponibile on line su ibs.